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Bollettino ADAPT 25 ottobre 2021, n. 37
L’analisi dell’organico aziendale è una pratica che può essere osservata ed implementata da molteplici angolature, ciascuna con una propria rilevanza e ben circoscritta utilità. In particolare, è tramite lo strumento della mappatura della popolazione aziendale che un HR management può determinare le proprie riflessioni ed orientare gli spunti di analisi, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. In particolare, il capitale umano può essere diversamente classificato in base alla tipologia contrattuale impiegata, parlando a tal riguardo di assunti a tempo indeterminato e a termine.
Accanto a questa classificazione, si può sviluppare un focus sulla modalità di esercizio della prestazione lavorativa, distinguendo in tali casi i rapporti full-time da quelli di tipo part-time; è inoltre possibile differenziare il personale attraverso ulteriori criteri quali: la mansione, il livello di inquadramento contrattuale, l’appartenere a categorie speciali etc. Attraverso la mappatura è possibile quindi volgere l’attenzione della porre in rilievo la funzione HR e gli strumenti in suo possesso per inquadrare le risorse umane impiegate in azienda.
Tuttavia, al di fuori di queste classiche differenziazioni, la mappatura della popolazione aziendale può avere un impiego più dinamico e quindi cogliere di conseguenza tutte le varie “movimentazioni” di personale all’interno di un dato periodo storico. Infatti, ragionare per qualifiche contrattuali, tipologie di assunzione, o mansioni (giusto per citare gli esempi sopra riportati) ci pone a livello di una visione piuttosto statica del personale aziendale, “fotografando” semplicemente una realtà cristallizzata e fissa.
Molto diverso è invece utilizzare la mappatura per comprendere come (ed eventualmente perché) il personale è aumentato o diminuito dal punto di vista quantitativo, e quanto quella variazione ha inciso sulla determinazione dell’organico in forza. A queste due domande rispondono rispettivamente l’analisi del turnover interno e la determinazione dell’organico medio.
Analisi del turnover aziendale
Con il termine employee turnover si vuole intendere il flusso di personale che transita, in ingresso e in uscita e quale che sia la ragione, all’interno di un’azienda. Le ragioni che possono determinare una spinta a questo fenomeno possono essere molteplici, ma è importante innanzitutto comprendere come si calcola l’indice di turnover.
Sebbene non ci siano né regole né prassi assolute al riguardo, tale valore può essere determinato sia partendo da dati assoluti, sia (e più frequentemente) in forma percentuale. Utilizzando valori assoluti, altro non si fa che partire dal personale in forza ad un dato periodo storico di riferimento, sommando o sottraendo date unità quante sono le risorse in entrata ovvero in uscita.
Utilizzando invece un termine di paragone percentuale, si va a dividere il numero di dipendenti subentrati (ovvero cessati) per il numero di personale in forza all’inizio del periodo di riferimento: il tutto rapportato poi in percentuale. Inoltre, a prescindere dal metodo utilizzato, è molto utile per le strategie aziendali di gestione del capitale umano comprendere se il turnover abbia origine volontaria o involontaria: ovviamente tale analisi è utile solamente per ciò che riguarda il turnover “passivo”, ovvero i casi di cessione del rapporto lavorativo.
Si intende volontaria l’uscita aziendale per libera volontà del lavoratore, a prescindere dalle motivazioni che hanno spinto verso quella decisione, portandolo dunque a dare le dimissioni. Si parla invece di involontarietà quanto l’atto di recesso del rapporto lavorativo proviene unilateralmente dal datore di lavoro, parlandosi a tal riguardo di licenziamento.
Comprendere dunque il dato numerico riguardante le uscite dei lavoratori è fondamentale per spingere la direzione HR ad analizzare se tale valore rientri in realtà nella media del settore di riferimento, o se invece nasconda un fenomeno “patologico” all’interno dell’organizzazione aziendale. Di conseguenza, è fondamentale innanzitutto saper interpretare correttamente i numeri e dar loro il giusto peso, contestualizzando non solo all’interno del settore merceologico di riferimento (dove è ovvio che accanto a settori più “impegnanti”, ce ne siano altri più “sopportabili”), ma anche all’interno dei reparti aziendali analizzati.
E nel far ciò, l’analisi del turnover può (e deve) stimolare la funzione HR ad una sorta di “esame di coscienza” sul livello di efficienza e di gestione del capitale umano in azienda. A titolo esemplificativo, se dal report risulta che c’è una percentuale molto alta di turnover involontario, la funzione HR potrà ad esempio mettere in dubbio il livello qualitativo delle fasi di selezione e recruitment, stimolando magari a tal riguardo una formazione maggiormente specifica.
I problemi tuttavia sono ben più gravi se è il turnover volontario ad avere un’incidenza abnorme: è qui infatti che possono celarsi quei casi di mala gestio che spingono in massa il personale a ricercarsi una nuova occupazione. Ed è qui, per riprendere il discorso poc’anzi iniziato, che è fondamentale saper contestualizzare. Un conto è se l’uscita volontaria è generalizzata, interessando dunque la totalità delle funzioni aziendali (amministrative o produttive che siano); altro è se quell’indice interessa esclusivamente una specifica e ben delimitata porzione dell’organico aziendale.
Nel primo caso infatti si è di fronte ad un vero e proprio caso patologico di gestione delle risorse umane, che può riguardare molteplici aspetti nei quali la direzione HR può (e deve) intervenire. Più diffusamente, questo fenomeno è da ricondurre ad un livello retributivo medio particolarmente basso e “fuori mercato”, così come (e sempre di più) da ritmi produttivi particolarmente impegnativi ed incessanti, il cui campanello d’allarme è spesso rappresentato da un utilizzo dello straordinario fuori controllo.
Specialmente quest’ultimo ambito, quello dei ritmi di produzione, è ciò che spinge il lavoratore medio ad abbandonare il posto di lavoro, in un contesto socio-economico di riferimento sempre più attento alle pratiche di work-life balance.
Di conseguenza, se il turnover volontario è generalizzato all’interno dell’intera organizzazione aziendale, è in concomitanza del ciclo produttivo tout court che l’HR management deve intervenire: prevedendo ad esempio un piano di assunzioni che livelli e snellisca la produttività interna (nel caso di straordinario eccessivo), ovvero prevedendo benefits e piani welfare (nel caso di livello retributivo particolarmente basso). Sono entrambe due soluzioni che, con lo scopo di ridurre il tasso di turnover volontario, hanno anche il pregio di far sì che l’aumento del costo del lavoro determinato sia ampiamente “coperto” sia da strategie industriali, sia prettamente normativo-fiscali.
Se infatti, negli esempi prima riportati, è l’elevato utilizzo di straordinario a giustificare l’esodo aziendale, un corretto e bilanciato piano assunzioni determinerà sì un incremento del personale “a libro paga”, ma quest’aumento sarà ben coperto dal costo dello straordinario (più elevato anche fiscalmente della paga ordinaria) che viene di conseguenza “neutralizzato”. Per non parlare poi dei vari incentivi fiscal-contributivi che il legislatore offre in materia di welfare aziendale, strumento percorribile se il turnover deriva (nel secondo esempio prima visto) da trattamenti retributivi ritenuti insufficienti.
Se invece l’elevata incidenza del turnover volontario è circoscrivibile a singole aree o funzioni d’azienda, è entro tale limite che deve volgersi lo sguardo della direzione HR. In linea di massima, è ovvio e banale dire che accanto a professioni o mansioni più impegnative ne esistono di altre più blande.
In ogni caso, l’essere qui l’analisi ben delimitata, porterà a valutazioni di maggiore dettaglio riguardanti ad esempio l’orario di lavoro di quel reparto, il tipo di lavorazione a cui il personale è sottoposto, il livello di coinvolgimento e stress psico-fisico, l’essere eventualmente quella funzione particolarmente sotto-depotenziata.
È molto semplice quindi comprendere quanto sia decisiva la corretta lettura di una mappatura aziendale che guardi al flusso entrate/uscite, al fine sia di intercettare casi patologici che di prevenire “esodi di massa” dall’organizzazione. Anche perché è sul livello di retention e di talent acquisition che si gioca la reputazione aziendale ed il livello di pubblicità del proprio brand.
Per non parlare poi dei costi (ingenti) che si manifestano ogni qual volta l’azienda deve provvedere a sostituire personale in uscita: si pensi, accanto ai costi reali, a quelli di natura accessoria, riguardanti ad esempio la formazione, il tutoring e la momentanea e parziale perdita di tempistiche e produttività. Se dunque l’analisi del turnover (in particolar modo, quello in uscita) è gravida di conseguenze e valutazioni dal punto di vista strategico-manageriale, è interessante anche notare un utilizzo del tutto diverso e maggiormente tecnico, ovvero il calcolo dell’organico medio e dell’indice FTE.
Analisi dell’organico medio
L’analisi dell’organico medio ha invece, come sopra accennato, un impiego più tecnico e slegato da valutazioni strategiche riguardanti una corretta ed equilibrata gestione del capitale umano. La sua utilità consiste comunque nel fotografare, tramite il ricorso a valori numerici assoluti, il grado di incidenza che le uscite e le entrate (in breve, il turnover) possono determinare sull’intero personale in forza.
La sua rappresentazione matematico-algoritmica è dato dall’indice FTE, ovvero Full Time Equivalent, che in realtà è un valore la cui analisi non riguarda solamente l’indice di turnover, allargandosi dunque al di là di quest’ultimo. Infatti, l’FTE è influenzato da due fattori centrali: il primo riguarda il già ricordato indice di turnover, il secondo riguarda sia il periodo di riferimento annuo di ingresso (o uscita) del lavoratore, sia la modalità di esecuzione della prestazione lavorativa spalmata sull’orario di lavoro (dunque full-time o part-time).
Tentando dunque di dare una semplice definizione di indice dell’organico medio, si può dire che quest’ultimo è dato dalla somma delle singole medie di incidenza (di orario e/o periodo di ingresso o uscita) del lavoratore che impattano sull’intera forza lavoro, rapportato al numero del personale in forza e ai giorni medi lavorabili (e dunque alle ore) nel corso dell’anno solare.
È sicuramente più semplice fare un esempio concreto. Un’azienda che ha alle proprie dipendenze 10 lavoratori, ha un organico totale in forza per un valore pari a 10. Tuttavia, se uno dei 10 lavoratori è entrato in forza a metà anno, la sua media rapportata all’intero personale sarà di 0,5: l’FTE infatti, come prima ricordato, è influenzato dalla media di giorni lavorativi svolti.
Se un altro dei 10 lavoratori è assunto da inizio anno, ma con un contratto di tipo part-time che prevede 25 ore settimanali, non deve illudere che il fatto che sia in forza da inizio anno determini un valore pari ad 1, poiché l’FTE, essendo influenzato dai giorni annui lavorabili (e dunque dalle ore di lavoro), sarà influenzato anche da questo valore.
Ipotizzando per gli altri 8 lavoratori un rapporto full-time e da inizio anno, il calcolo di organico medio sarà così composto: 8 (gli ultimi) + 0,5 (primo esempio) + 0,6 (part-time). Per un totale di valore FTE pari a 9,1, sebbene il personale in forza sia composto da 10 lavoratori.
È chiaro dunque come in situazioni disomogeneità occupazionale, il valore di organico medio sia sempre inferiore del valore dell’organico in forza, e come invece in aziende in totale omogeneità i due valori coincidano sempre perfettamente. Gli spunti riflessivi anche in questo caso possono riguardare le modalità di allocazione del personale, il grado di incidenza di un singolo lavoratore sul totale complessivo, ed il suo ammontare di costo in proporzione al full cost.
Inoltre, l’organico medio può avere un utilizzo (tuttavia parziale) anche nei confronti di alcune discipline giuslavoristiche. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai criteri di computo interno su cui si basa il prospetto informativo valido per l’inserimento o meno di categorie protette in azienda. In questo caso infatti il titolare di rapporto di lavoro part-time “fa quota” esclusivamente in riferimento alle sue ore lavorate, rappresentando dunque sempre un valore decimale rispetto ad un collega che svolga un rapporto full-time.
In questo caso tuttavia è solamente questo il raccordo che si ha con l’indice FTE, non essendo rilevante infatti il periodo annuo di ingresso o uscita dall’organizzazione aziendale, ma solo il rapporto proporzionato all’orario di lavoro effettivamente svolto.
Alcune considerazioni finali
L’analisi del turnover aziendale e dell’organico medio basato sull’indice FTE si basano dunque entrambe su un tipo di interpretazione dinamica del personale impiegato, rispetto alla staticità e linearità che le classiche mappature categoriali offrono in materia HR.
Tuttavia è importante sottolineare come sia soprattutto dall’analisi del turnover interno che è agevole stimolare quelle riflessioni strategico-manageriali che determinano piani welfare, ristrutturazioni del personale, ottimizzazione e snellimento dei cicli di produzione industriale, ed equilibrata gestione delle risorse umane.
Viceversa, l’analisi riguardante l’organico medio ha invece un impiego maggiormente tecnico, che probabilmente più si addice agli studi di consulenza o a società di revisione e certificazione aziendale, sebbene possa anche impattare (in modo parziale) su alcune discipline giuslavoristiche di riferimento.
In ogni caso, i due strumenti di analisi possono offrire uno studio diverso del livello occupazionale, prestandosi inoltre a quelle indagini comparate (da periodo a periodo, da anno ad anno) che possono meglio rappresentare i flussi occupazionali che interessano l’azienda in questione.
Gabriele Ansani
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
Università degli Studi di Siena