Le motivazioni dello sciopero, e la scelta di Torino come piazza principale, ne mettono in chiaro la natura solo politica. A farne le spese è l’immagine del Paese.
La querelle sulla precettazione dei ferrovieri, prima disposta dal ministro Maurizio Lupi e poi ritirata, è servita quantomeno ad alzare la temperatura della vigilia di uno sciopero generale che rischiava il dimenticatoio. La scelta della data è stata laboriosa e non ha sicuramente giovato. Ma l’elemento che ha reso meno efficace di altre volte la preparazione consiste in una piattaforma di convocazione indirizzata contro «il combinato disposto di Jobs act e legge di Stabilità», come si può leggere sul sito della Cgil.
Per carità, si può anche decidere di convocare uno sciopero contro il combinato disposto, ma non è una motivazione che vale oro e che segna né un’originalità di pensiero né l’elaborazione di una piattaforma alternativa. E così è emerso in questi giorni che si tratta di un puro sciopero politico contro il governo, reo di aver azzerato il dialogo con i sindacati. È tanto politico che i lavoratori del teatro alla Scala hanno chiesto di togliere la tessera della Cgil ai parlamentari che hanno votato per il Jobs act. È un piccolo episodio ma tradisce la permanente confusione che si continua fare tra sindacato e partito, tra rappresentanza e politica. Ed è singolare che accanto a Susanna Camusso oggi ci sia la Uil, che ha scelto, per l’esordio della segreteria Barbagallo, il posizionamento più sinistrorso della sua storia. Le due confederazioni che oggi sfileranno nelle piazze d’Italia stanno difendendo, quindi, prima di tutto se stesse e il potere che hanno avuto nell’Italia della concertazione. Operazione legittima in democrazia, ma che si presenta modesta al confronto delle sfide che ci stanno davanti.
E, allora, era proprio necessario che la manifestazione più importante, quella segnata dalla presenza di Camusso, fosse quella di Torino, in coincidenza con un vertice italo-tedesco alla presenza del presidente Giorgio Napolitano? Era proprio indispensabile sottolineare agli occhi dell’opinione tedesca la difficoltà del nostro Paese di staccarsi dai vecchi riti e dalla retorica del conflitto fine a se stesso? No, si poteva disporre diversamente ma la contrapposizione che divide Palazzo Chigi dalla segreteria Cgil è così feroce che mette in secondo piano le opportunità internazionali, l’intelligenza tattica, l’immagine del Paese. Per di più si ha l’impressione che l’inedito duo Barbagallo Camusso sia rimasto indietro anche nella lettura degli avvenimenti di questi giorni. L’Europa è ripiombata l’esito della drammatica vicenda greca sta rimettendo in discussione quelle poche certezze che avevano acquisito, la partenza della commissione Junker non sta certo segnando quella discontinuità che era stata promessa dopo il voto europeo e l’affermazione degli euroscettici in ben due Paesí dí prima fascia (Francia e Inghilterra). Di fronte a questi macigni Cgil e Uil sanno solo replicare che «l’articolo 18 non si tocca», coltivare l’idea di una patrimoniale e convocare uno sciopero destinato a rivelarsi inutile.
Personalmente non penso che i sindacati vadano azzerati ma, anzi, in una fase in cui la società è smarrita e si tratta di rintracciare persino il senso di una comune riscossa c’è bisogno di buona intermediazione. E faccio un esempio concreto. La scorsa settimana si sono svolte le elezioni per il rinnovo delle Rsu alla Carraro di Campodarsego (Padova). Nonostante l’aumento degli aventi diritto al voto rispetto al precedente test del 2011 il numero dei delegati eletti è stato ridotto da 21a 15, e questo per effetto di un accordo sottoscritto da tutte e tre le sigle che ha negoziato la riduzione dei diritti organizzativi in cambio di nuove assunzioni e investimenti. Chapeau. Ma è possibile che questa logica innovativa si manifesti solo nei territori e mai a Roma?