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Bollettino speciale ADAPT 18 marzo 2020, n. 3
Il 14 marzo Governo, organizzazioni datoriali e sindacali hanno sottoscritto un “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”. Detto documento – nel quale appare alquanto anomala la mancata indicazione dei nomi dei soggetti firmatari – esordisce richiamando le disposizioni restrittive per le attività produttive, già introdotte con il DPCM dell’11 marzo 2020, al fine di contenere la diffusione del virus. Tra queste previsioni spiccano le “raccomandazioni” (insolita tipologia di prescrizione per un atto come un DPCM) rivolte alle imprese di fare il massimo utilizzo della modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte dal proprio domicilio o da remoto, di incentivare le ferie e i congedi retribuiti per i dipendenti e di sospendere le attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione.
Contenuti innovativi del Protocollo, invece, riguardano l’informazione da erogare a vantaggio dei dipendenti, le modalità di controllo degli accessi, la pulizia dei locali aziendali, la gestione degli spazi comuni, l’organizzazione aziendale, la sorveglianza sanitaria, la gestione degli eventi e di persone sintomatiche in azienda.
Purtroppo il Protocollo rappresenta un’occasione mancata per fare chiarezza sulla vexata quaestio circa la configurabilità di un obbligo per il datore di lavoro di aggiornare il documento della valutazione dei rischi alla luce del nuovo Coronavirus. Sul punto si vuol ribadire come non si ritenga necessaria detta revisione per tutte quelle attività produttive che non abbiano ad oggetto gli agenti biologici e che quindi siano contraddistinte da un rischio di esposizione meramente generico, ovvero assimilabile a quello presente anche all’esterno dei luoghi di lavoro. L’obbligo di aggiornamento, pertanto, coinvolgerà le imprese che manipolino deliberatamente simili agenti a fini di ricerca oppure le strutture sanitarie, i cui dipendenti sono esposti agli agenti biologici presenti nei pazienti affidati alle loro cure, nonché infine quelle imprese in cui si svolgano attività (elencate a titolo esemplificativo nell’allegato XLIV del d.lgs. n. 81/2008) che espongono i lavoratori a un rischio da contatto accidentale aggravato (per approfondimenti sia consentito rinviare a L.M. Pelusi, Coronavirus: la gestione del rischio di contagio nei luoghi di lavoro, in Bollettino speciale ADAPT 28 febbraio 2020, n. 2).
Se non una conferma, quantomeno un segnale nella stessa direzione di questa soluzione interpretativa sembra rinvenibile nel nuovo d.l. del 16 marzo 2020, n. …, c.d. Cura Italia. All’art. 42, comma 2, infatti, nel disciplinare la copertura assicurativa per i casi accertati di infezione da Coronavirus in occasione di lavoro, si prevede che detti eventi infortunistici non siano computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio di tariffa per l’andamento infortunistico, quindi non finiranno per incidere negativamente sul premio assicurativo dovuto. Pare possibile desumerne un riconoscimento implicito della natura non professionale del rischio biologico in questione, considerato che non gli vengono applicate le ordinarie regole valide per le malattie professionali persino quando sia stato accertato che questo rischio si sia concretizzato in occasione di lavoro.
Si deve soltanto aggiungere che ultimamente si sono registrate anche alcune pubblicazioni di fonte istituzionale volte a riconoscere la sussistenza dell’obbligo di rivalutazione dei rischi unicamente a carico dei datori di lavoro del settore «sanitario o socio-sanitario […] o comunque qualora il rischio biologico sia un rischio di natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell’azienda» (così, Nota “COVID-19: indicazioni per la tutela della salute negli ambienti di lavoro non sanitari” redatta dalla Regione Veneto in data 2 marzo 2020; in senso analogo anche la “Nota informativa per le aziende del territorio marchigiano, nel periodo di epidemia da nuovo coronavirus” della Regione Marche del 6 marzo 2020 e le FAQ pubblicate dall’Agenzia Tutela della Salute Insubria; di avviso contrario, invece, l’Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna, “Prime indicazioni per le aziende ai fini dell’adozione di misure per il contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro”, del 06/03/2020).
Venendo ora al Protocollo, il suo primo punto concerne l’informazione dei lavoratori che le imprese si impegnano a garantire attraverso la distribuzione in azienda di opuscoli informativi. Al loro interno deve essere precisato che il lavoratore deve rimanere al proprio domicilio in caso di febbre o altri sintomi influenzali, avvertendo il proprio medico di famiglia; che questi deve lasciare l’azienda in presenza di condizioni di pericolo (sintomi influenzali, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti); l’impegno a rispettare le cautele sanitarie prescritte, come la distanza interpersonale, e a informare tempestivamente il datore di lavoro della presenza di qualsiasi sintomo influenzale durante l’espletamento della prestazione lavorativa.
Sia l’entrata che l’uscita del personale è (preferibilmente) organizzata a scaglioni per prevenire la formazione di assembramenti. Prima dell’accesso al luogo di lavoro, il personale può essere sottoposto al controllo della temperatura corporea al fine di precludere l’accesso e isolare con tanto di mascherina chi abbia più di 37,5°. Tale punto si pone apertamente in contrasto con quanto precisato dal Garante per la protezione dei dati personali, nella Nota pubblicata in data 2 marzo 2020. Vi si affermava, infatti, che il datore di lavoro deve astenersi dal raccogliere in maniera sistematica e generalizzata, attraverso specifiche richieste o indagini sul singolo lavoratore, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali in capo al lavoratore e ai suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera extra-lavorativa, spettando tali accertamenti ad operatori sanitari qualificati (in argomento, cfr. E. Dagnino, La prosecuzione dell’attività lavorativa: tra lavoro agile e controlli, in Bollettino speciale ADAPT n. 3/2020). Il datore di lavoro informa inoltre il personale, e chi intende fare ingresso in azienda, della preclusione dell’accesso a chi, negli ultimi 14 giorni, abbia avuto contatti con soggetti risultati positivi al COVID-19 o provenga da zone a rischio.
Per i fornitori esterni sono poi previste specifiche misure di riduzione delle occasioni di contatto con il personale aziendale, dovendo essere definiti procedure e percorsi a tal fine idonei. Allo stesso modo, gli autisti dei mezzi di trasporto dovranno rimanere a bordo e non accedere agli uffici, né ai relativi servizi igienici. In ogni caso andrà mantenuta una distanza di un metro dalle altre persone.
L’azienda deve assicurare la pulizia giornaliera e la sanificazione periodica dei locali, degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni (mense e spogliatoi) e di svago. In questi ultimi spazi, peraltro, gli accessi devono essere contingentati, con la previsione di una ventilazione continua dei locali, di un tempo ridotto di sosta all’interno di tali spazi e con il mantenimento della distanza di sicurezza di un metro tra le persone che li occupano. Va in particolare garantita la pulizia a fine turno e la sanificazione periodica con adeguati detergenti di tastiere, schermi touch, mouse, oltre agli spogliatoi, la mensa ed eventuali distributori di bevande e snack. In caso di accertata presenza di una persona con COVID-19 all’interno dei locali aziendali, si deve procedere alla pulizia, sanificazione e ventilazione di questi, secondo le disposizioni della circolare n. 5443 del 22 febbraio 2020 del Ministero della Salute.
Allo scopo di dare un sostegno economico alle imprese, considerate le significative spese da queste sostenute per garantire la sicurezza e l’igiene degli ambienti di lavoro, all’art. 43 del d.l. Cura Italia si stabilisce che l’INAIL, entro il 30 aprile 2020, stanzierà un importo di 50 milioni di euro da erogare alle imprese per l’acquisto di dispositivi e altri strumenti di protezione individuale.
I datori di lavoro si impegnano inoltre a mettere a disposizione idonei detergenti per le mani, essendo raccomandata la frequente pulizia delle mani con acqua e sapone. Quanto ai DPI, invece, nel Protocollo si prende atto dell’estrema difficoltà di reperire sul mercato le “mascherine”, stabilendo quindi che esse sono obbligatorie, insieme a guanti, occhiali e camice, soltanto qualora il lavoro imponga di lavorare a distanza interpersonale minore di un metro e non siano possibili altre soluzioni organizzative.
Sul punto è intervenuto anche il d.l. Cura Italia, in cui all’art. 16 si prevede che, per tutta la durata dello stato di emergenza, anche le mascherine di tipo chirurgico saranno considerati alla stregua di dispositivi di protezione individuale (DPI) per tutti quei lavoratori che nello svolgimento della loro attività siano oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro. Lo stesso decreto, data l’urgenza di reperire mascherine per il trattamento delle persone infette, ne consente la produzione in deroga alle vigenti disposizioni, purché siano rispettati gli stessi requisiti di sicurezza ivi previsti. Analogamente, viene autorizzato l’utilizzo sul territorio nazionale di mascherine filtranti prive del marchio CE e prodotte in deroga.
Tornando ai contenuti del Protocollo, sul piano organizzativo del lavoro – ribadita la misura di maggior rilevanza dell’intero documento, consistente nel chiudere tutti i reparti diversi dalla produzione o da quelli che possono funzionare mediante il ricorso al lavoro agile, o comunque a distanza – si vuole assicurare un piano di turnazione dei dipendenti dedicati alla produzione con l’obiettivo di diminuire al massimo i contatti e di creare gruppi autonomi, distinti e riconoscibili. Con riferimento alla chiusura delle attività non indispensabili, inoltre, si invitano le parti a utilizzare in via prioritaria gli ammortizzatori sociali disponibili nel rispetto degli istituti contrattuali (PAR, ROL, banca ore) generalmente finalizzati a consentire l’astensione dal lavoro senza perdita della retribuzione. Importante poi la pattuizione con la quale vengono dichiarate “sospese e annullate” tutte le trasferte e viaggi di lavoro nazionali e internazionali, anche se già concordate o organizzate. Analogamente vengono vietate le riunioni in presenza. Di contro, viene prevista la prosecuzione, con i dovuti accorgimenti igienico-sanitari, della sorveglianza sanitaria.
Vengono poi previste misure per la gestione di una persona sintomatica in azienda: comunicata immediatamente la circostanza all’ufficio del personale, si dovrà procedere all’isolamento dell’interessato e a quello degli altri presenti nei locali, in base alle disposizioni dell’autorità sanitaria. Non si comprende come mai nel Protocollo siano trattate in maniera diversa due situazioni del tutto analoghe: nel caso in cui una persona presente in azienda sviluppi sintomi sospetti, l’azienda procede immediatamente ad avvertire le autorità sanitarie competenti. Al contrario, le persone trattenute al momento dell’ingresso in quanto febbricitanti dovranno contattare nel più breve tempo possibile il proprio medico curante. Può darsi che questa incongruenza sia da attribuire a un mero errore di coordinamento fra le due previsioni (punti 2 e 11 del documento), piuttosto che a una precisa volontà di differenziare le modalità di intervento nei due casi.
In conclusione, deve rilevarsi che tutte le previsioni contenute nel Protocollo appaiono come misure precauzionali di sicura utilità, dettate dal buon senso e in grado di incidere positivamente sulle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori ancora chiamati a rendere la prestazione in azienda in questi mesi di stato emergenziale. Un auspicio riguarda in particolare il fattivo e immediato adempimento da parte delle imprese dell’impegno di disporre la chiusura di tutti i reparti in cui si svolgano attività eseguibili tramite il lavoro a distanza o che non siano comunque indispensabili ai fini della continuità produttiva, essendo questa la misura che più di ogni altra risulta effettivamente in grado di ridurre il rischio di contagio nei luoghi di lavoro.
ADAPT Research Fellow