Un anno di Jobs Act. È tempo di bilanci. E non è solo una questione di numeri, quanti sono cioè i posti di lavoro creati in un anno di governo. Riforme epocali, come il Jobs Act ambisce a essere, richiedono anni per produrre i primi risultati e consentirne una valutazione non condizionata da logiche e posizioni di parte.
Sin dalle prime misure di flessibilizzazione del mercato del lavoro, approvate dal Consiglio dei Ministri del 20 marzo 2014 (quello delle slide modello televendita) che ha dato avvio al progetto riformatore poi completato a fine anno, il Jobs Act ha spaccato a metà il Paese consentendo tuttavia a Matteo Renzi di uscirne come unico e indiscusso vincitore. Perché il primo bilancio, quello politico, è certamente tutto a suo favore.
Da un lato i blocchi di conservazione: i giudici del lavoro, i mandarini di Stato e persino le imprese che, a detta del premier, hanno sin qui cercato solo alibi per non assumere. Dall’altro lato lui, Renzi, il paladino del cambiamento. Un uomo solo al comando che via via conquista campo (e anche ex nemici) esaltando se stesso e i suoi sostenitori nella plastica contrapposizione con i tanti giganti dai piedi d’argilla che incontra sul suo cammino. Il sindacato su tutti, che si è dimostrato improvvisamente vecchio e incapace di contrastare la valanga Renzi. Un sindacato messo fuori gioco sin dalla prima abile mossa, quella degli 80 euro, che fatica a dare risposte ai più deboli, che pure sono lasciati soli dal Jobs Act, e che però perde per strada la forza lavoro più qualificata, i nuovi lavori e soprattutto i giovani.
Nel condurre in prima persona la battaglia finale sul Jobs Act, Renzi non ha semplicemente portato a casa il pregiato scalpo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ridicolizzando avversari interni ed esterni ha piuttosto stabilito, prima di ogni altra cosa, la sua leadership assoluta e incondizionata su un intero Paese riuscendo, almeno agli occhi dell’opinione pubblica, là dove tutti prima di lui avevano miseramente fallito.
Renzi über alles. E per noi italiani? La sua sarà una vittoria di tutti? Non c’è dubbio che il Jobs Act si muova nella direzione corretta di una modernizzazione del mercato del lavoro, da tempo attesa. E poco importa se non convince l’onestà di fondo di una operazione tecnica che, nel superare l’articolo 18, parla di tutele di nuova generazione (politiche attive e ricollocazione dei disoccupati) che ancora non ci sono e che a lungo non ci saranno come indica, senza tema di smentite, il flop di Garanzia giovani che non a caso Renzi ha scaricato sulle spalle del Ministro del lavoro Giuliano Poletti e delle Regioni.
Il punto semmai è un altro ed è di sostanza. E cioè il rischio che anche il Jobs Act si traduca, nel lungo periodo, in un vuoto spot elettorale capace di incidere sulla realtà del mercato del lavoro quanto un tweet di 140 caratteri. Né più né meno degli 80 euro con cui Renzi ha messo nel sacco il sindacato. E ora potrebbe essere la volta di lavoratori e imprese.
Non solo perché l’articolo 18 non è stato abrogato e anzi ricompare in vicende aziendali che giungono a decretare “la scelta di non applicare il contratto a tutele crescenti”, come si legge nell’intesa sindacale dello scorso marzo tra sindacati e gruppo Novartis, ratificando così la persistente vitalità della norma simbolo del vecchio diritto del lavoro. Più rilevante è semmai il fatto che Renzi, a sostegno del Jobs Act, abbia puntato una fiche da 5 miliardi di euro per superare il dualismo del mercato del lavoro tra protetti ed esclusi. Un dualismo che invece non solo non viene superato ma è anzi esasperato dalla contrapposizione tra nuovi e vecchi assunti che si affianca a quella storica tra lavoratori pubblici e privati.
A fine anno avremo così quasi un milione di nuovi lavoratori a tempo indeterminato, ma difficilmente un solo posto di lavoro in più rispetto all’anno passato trattandosi di trasformazioni di vecchi contratti a termine precari in nuovi contratti a tempo indeterminato altrettanto precari. Un’operazione molto costosa, ancora senza copertura certa (si stima che solo per il 2015 manchino 3 miliardi di euro), che ha come obiettivo una stabilizzazione del lavoro precario che tale non è se è vero che il nuovo contratto a tempo indeterminato non avrà più quella stabilità che solo l’articolo 18 poteva garantire.
Un’operazione non a somma zero per le casse dello Stato (e dunque alla lunga per le stesse imprese in termini di incremento della tassazione e del cuneo fiscale) se solo si considera il combinato tra mancate coperture dell’esonero contributivo, pari circa a 5 miliardi, e mancato gettito per i prossimi anni stimato nella stessa relazione illustrativa della legge di stabilità in ben 15 miliardi di euro: cosa ben diversa se si fosse trattato di un milione di nuove assunzioni e non di (finte) stabilizzazioni. Sono i dati a parlare: in un anno di Governo Renzi (marzo 2014-marzo 2015) i posti di lavoro aggiuntivi creati sono solo 30.633. Una piccola goccia rispetto al grande mare fatto di oltre 3 milioni di disoccupati e 2 milioni di giovani inattivi.
Meglio comunque di quanto fatto dai precedenti Governi? Non proprio. Le recenti riforme Fornero (2012) e Giovannini (2013) non hanno sicuramente lasciato grandi rimpianti e molti estimatori alle loro spalle. Sul tema delle politiche di incentivazione della occupazione parlavano però un linguaggio molto più onesto del Jobs Act e delle nuove “tutele crescenti”. Un linguaggio come tale poco o nulla accattivante nel circuito mediatico che alimenta il consenso politico. Quello per cui occupazione aggiuntiva non si crea con uno sfacciato gioco delle tre carte che, alla lunga, si rivela per quello che è: un bluff e poco altro nella speranza che sia l’inversione del ciclo economico a sancire la “svolta buona” annunciata da Renzi ma che ancora non c’è.
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico di ADAPT
@Michele_ADAPT
* Pubblicato anche su Panorama, 13 maggio 2015 con il titolo Jobs Act, lo spot costoso che non crea lavoro.
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