Lo scorso anno l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha indicato il 15 luglio 2015 come World Youth Skills Day al fine di evidenziare la gravità e l’urgenza di azioni di contrasto contro l’inattività e la disoccupazione giovanile che anche in Italia raggiunge, oramai da troppi anni, tassi che si pongono ben oltre la soglia di allerta. Il cuore di queste iniziative, per le Nazioni Unite così come per tutte le principali istituzioni internazionali, sono la formazione e le competenze dei giovani. Eppure con con l’apprendistato all’italiana e la recente riforma del relativo quadro regolatorio contenuta nel decreto legislativo di riordino delle tipologie contrattuali (d.lgs. n.81/2015) abbiamo ben poco da celebrare.
Da quindici anni l’ISFOL, con un prezioso quanto sottovalutato monitoraggio, indica potenzialità e (attuali) limiti dell’apprendistato in Italia quale leva strategica della costruzione dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro e, in particolare, quale canale privilegiato della (oggi difficile) transizione dei nostri giovani dalla scuola al lavoro. Eppure il Legislatore si ostina a non trarre nessuna lezione dalla miniera di informazioni circa le reali criticità di questo strumento così prezioso tanto per l’occupazione di buona qualità quanto per la produttività del lavoro e la sfida delle competenze e dei mestieri connessa alla grande trasformazione in atto nel mondo del lavoro di cui stiamo dibattendo da tempo nell’omonimo Blog ADAPT di Nòva del Sole 24 Ore e di cui parleremo diffusamente a novembre nel nostro annuale appuntamento internazionale con ricercatori ed esperti provenienti da ogni parte del mondo.
Il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 ha anticipato la presentazione del XV Rapporto ISFOL sull’apprendistato non solo cronologicamente ma ancor di più in termini di (mancata) analisi e valutazione consegnandoci, di conseguenza, l’ennesima riforma senza progetto. L’impressione – come abbiamo cercato di documentare nel Bollettino speciale allegato – è che il Legislatore non solo non abbia letto le bozze del Rapporto ISFOL ma neppure conosca cosa sia l’apprendistato e cioè non solo una tipologia contrattuale come tante altre quanto piuttosto un pezzo strategico di un moderno sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro incentrato sulla analisi dei fabbisogni professionali e sull’investimento in competenze e abilità professionali (in questa prospettiva cfr. M. Tiraboschi, Ragioni e impianto di una riforma, in Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini a cura di M. Tiraboschi, Le nuove leggi civili, Giuffrè, 2011), come testimoniano le migliori esperienze europee e internazionali pazientemente raccolte dal gruppo di ricercatori di ADAPT.
Non basta infatti richiamare ritualmente il sistema duale tedesco per replicare anche nel nostro Paese un modello di apprendistato incentrato sulla alternanza e su una nuova cultura di impresa (v. M. Tiraboschi, Il ruolo della impresa nella grande trasformazione di un lavoro che passa da una nuova scuola, su La Grande Trasformazione del lavoro, Nòva, Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2014). Come bene indicano le linee di indirizzo europee, l’apprendistato, per svolgere la sua funzione, ha bisogno di una quadro normativo e istituzionale stabile e non di continui interventi sulla cornice legale che paralizzano l’azione degli operatori economici e degli attori del sistema di relazioni industriali chiamati a trasporre le regole generali nella contrattazione collettiva di settore. Una produzione legislativa sterminata, come cerchiano di documentare sul sito www.fareapprendistato.it, che sul versante dell’apprendistato scolastico e universitario (quello sul quale scommette oggi il Legislatore) è certamente assai più numerosa dei pochi contratti stipulati: 3405 (di cui 3000 nella provincia di Bolzano) per il primo livello e 503 per il terzo.
L’apprendistato dopo il restyling operato dal Jobs Act è ancora una semplice tipologia contrattuale novecentesca, costruita attorno al risparmio economico/contributivo (come tale oggi spiazzata dall’esonero contributivo della legge di stabilità) e alla funzione sociale di contrasto alla disoccupazione giovanile. Si tratta di fattori indubbiamente importanti, ma incapaci di innescare quel cambio di paradigma culturale che permetterebbe di individuare come ingredienti principali dell’istituto la qualità della formazione e l’importanza della costruzione delle competenze per i mestieri del futuro. Viene insomma ridotto a risparmio uno strumento che dovrebbe avere il respiro dell’investimento nella dimensione soggettiva e relazionale del lavoro e non in quella economicissima di mero scambio immediato. L’investimento nella relazione Maestro-allievo che è la sola capace di costruire quelle competenze professionali idonee a gestire la rivoluzione del lavoro in atto e avviare una nuova filiera formativa e scolastica. L’invetimento e forse anche la scommessa in una concezione di impresa come sede della creazione e condivisione di valore e ricchezza.
Centrale, per cogliere la grande trasformazione del lavoro, era in effetti non solo la razionalizzazione delle tipologie contrattuali e l’avvio del nuovo contratto a tutele crescenti ma anche, e prima ancora, la riscrittura della stessa nozione di impresa. Perché la modernizzazione del mercato del lavoro e il superamento del Novecento ideologico passa anche da un ambiente culturalmente favorevole alla libertà di iniziativa economica: dalla condivisione del valore della impresa che, ancora oggi, appare invece circondata da sospetti e resistenze che ne fanno il luogo inesorabile dello sfruttamento dell’uomo sui propri simili. Non staremmo infatti ancora oggi a discutere di articolo 18 e di mercificazione del lavoro se l’impresa non avesse più nemici che amici e se fosse davvero vista come un valore in sé senza il necessario corredo di comportamenti etici e socialmente responsabili per essere accettata o al più tollerata come male necessario.
Della riforma del lavoro, anche in prospettiva del rilancio della formazione in ambiente di lavoro, la prima norma da riscrivere – come avevamo proposto nella bozza dai codice semplificato del lavoro con Pietro Ichino (cfr. Progettare per modernizzare. Il Codice semplificato del lavoro, a cura di G. Gamberini, ADAPT LABOUR STUDIES e-Book series, n. 23/2014) – era dunque quella di cosa è oggi una impresa ben oltre l’attuale definizione del nostro codice civile quale freddo luogo dello scambio di lavoro contro salario. Perché l’impresa è prima di tutto sede della creazione e condivisione di valore e ricchezza. Una impresa come formazione sociale e non solo organizzazione economica: luogo di relazioni umane dove si costruiscono appartenenze e valori e dove si forma e sviluppa la persona nelle sue espressioni certamente professionali ed economiche, ma anche culturali e morali.
Solo cambiando l’idea di impresa potremmo lasciarci alle spalle la paralizzante conflittualità e i veti del nostro sistema di relazioni industriali e, con essi, quella contrapposizione tra capitale e lavoro che non è più attuale. Una definizione positiva di impresa cambia necessariamente anche l’idea del lavoro che oggi non è più solo subordinazione tecnica e gerarchica tipica di chi, sotto la minaccia di sanzioni e controlli, esegue ordini e direttive senza invece partecipare in senso pieno al processo produttivo e alla catena del valore. Senza questo passaggio culturale e valoriale, vera cartina di tornasole di un cambio di epoca e premessa del vero contratto unico a fasi progressive che è appunto l’apprendistato (cfr. G. Bretagna, M. Tiraboschi, Il contratto unico? Ascoltateci: c’è già, Job24, Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2011), non avremo mai l’altro pilastro su cui si regge un sistema produttivo moderno e cioè quell’integrazione tra sistema educativo e formativo e mercato lavoro essenziale per la costruzione delle competenze e dei mestieri del futuro.
I fallimenti nel nostro Paese dell’alternanza scuola-lavoro e dell’apprendistato scolastico e la radicata diffidenza verso i percorsi formativi tecnici e professionali si spiegano infatti anche a causa del disvalore che la nostra società ha per lungo tempo assegnato alla impresa, con il conseguente pregiudizio che chi studia e si forma non può lavorare e viceversa. Cosa che non è mai stata vera e che, comunque, oggi non è più possibile affermare in un mercato del lavoro moderno ed evoluto che richiede continue innovazioni e, conseguentemente, persone con competenze professionali e relazionali idonee a gestire la rivoluzione tecnologica e il cambiamento in atto. Persone che attraverso una più stretta collaborazione tra scuola e impresa hanno imparato a fare e non solo a imparare come in realtà ama dire il Ministro Poletti senza però che a queste importanti affermazioni seguano reali cambiamenti normativi e prima ancora culturali e progettuali.
Presidente ADAPT
@EMassagli
Coordinatore scientifico di ADAPT
@Michele_ADAPT