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Bollettino ADAPT 8 febbraio 2021, n. 5
Da tempo mi occupo di salario minimo, tra i non molti giuslavoristi in Italia. La definizione di un salario minimo legale, per lo più intercategoriale, è diffusa in tutto il mondo. La gran parte dei paesi dell’Unione Europea, da quelli più grandi e storici ai cd. newcomers, ha un salario minimo stabilito per legge. Al club dei paesi con salario minimo si è aggiunta recentemente, a partire dal 2015, la Germania.
Lì, come reazione all’autoritarismo del periodo nazista, con la determinazione della politica salariale da parte del governo, i sindacati dei lavoratori e le associazioni datoriali sono sempre stati, nel passato, concordi nel non lasciare allo Stato il compito di fissare i salari. Il loro atteggiamento è però cambiato quando, a seguito dell’erosione della contrattazione collettiva nazionale, in un certo numero di settori produttivi, salari adeguati non potevano più essere garantiti.
Tra i paesi privi di un salario minimo fissato per legge vi è l’Italia, dove la sua introduzione è oggetto di un dibattito inspiegabilmente inconcludente, che vede comunque l’opposizione a siffatta introduzione delle associazioni dei datori di lavoro, così come quella, assai meno spiegabile, dei sindacati dei lavoratori. Il timore di questi ultimi è che la determinazione di un salario minimo da parte del legislatore finisca per abbattere i livelli dei salari contrattuali.
Eppure storici studiosi delle relazioni industriali, si pensi a Sidney e Beatrice Webb, già alla fine dell’800, hanno evidenziato che, lungi dall’ostacolare la contrattazione collettiva, il salario minimo legale risponde alle esigenze sia di garantire una tutela minimale a settori che il sindacato non è in grado di raggiungere, sia di fornire un sostegno generalizzato di base all’azione sindacale, sempre suscettibile di miglioramento.
Vi sono disegni di legge presentati in Parlamento che cercano di superare l’opposizione sindacale demandando in prima battuta ai contratti collettivi di fissare il minimo salariale, con tuttavia la fissazione di un limite quantitativo operante come pavimento per la contrattazione collettiva e comunque come parametro per settori non coperti dalla stessa. Questo limite quantitativo, non lo nascondo, è difficile fissare, tenendo conto di tutte le variabili, in primis economiche (si pensi alle diversità legate ai territori, in particolare nord/sud; alle dimensioni delle imprese; all’età dei lavoratori). Tuttavia la diffusa posizione di avversione, in qualche misura preconcetta, ha fatto sì che la discussione non si sia mai spinta fino a questo punto; punto che invece è imprescindibile se si vuole pervenire a soluzioni razionali, in un senso oppure nell’altro. Insomma la discussione sul salario minimo, come mi è capitato di scrivere, si è sterilmente arrestata alla soglia dell’an, senza mai arrivare seriamente a quella del quomodo.
Ora l’impulso ad una maggiore concretezza nel dibattito può provenire dalle istituzioni europee. La Commissione europea ha proposto, a fine 2020, al Parlamento e al Consiglio l’adozione di una direttiva relativa a “salari minimi adeguati nell’Unione Europea”, di cui sono grandemente discusse la base giuridica e la effettiva portata. Ma tale iniziativa europea potrebbe avere il merito di portare il dibattito italiano fuori dalle secche, cioè fuori dall’inconcludenza e dall’apriorismo che l’ha fin qui caratterizzato.
Una ultima notazione: l’apertura di un dibattito serio sul salario minimo orario avrebbe anche l’effetto benefico di rendere finalmente trasparenti, e forse semplificare, le “buste paga” italiane, caratterizzate da un anomalo affastellamento di voci, in specie di retribuzione differita, spesso del tutto anacronistico.
Mariella Magnani