Una breve riflessione sull’importanza della conoscenza dei dati nell’analisi giuslavoristica in Italia

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Bollettino ADAPT 16 settembre 2024 n. 32
 
La sintesi di Francesco Alifano riguardante il capitolo Research Methods in Labor Law: Surveys and Administrative Data, realizzato da Andrea M. Noack, Leah F. Vosko, Eric Tucker e Rebecca Casey (pubblicato nel volume Research methods in labour law: A handbook, curato da Alysia Blackham and Sean Cooney, Edward Elgar Publishing Ltd., 2024) potrebbe essere certamente utile a riaccendere l’attenzione dei giuslavoristi italiani sul tema dell’utilizzo (e dell’importanza) dei dati nella ricerca giuslavoristica.
 
Votata principalmente (e spesso) a dibattere sulla interpretazione delle disposizioni di legge, sulle relative ricadute applicative e a ricostruire l’ordinamento giuridico (del lavoro) nella sua continua evoluzione, la tradizione giuslavoristica italiana ha raramente mostrato attenzione verso metodologie di ricerca condotte tramite l’analisi dei dati amministrativi riguardanti il lavoro. E tutto questo anche perché, come è stato autorevolmente osservato, in Italia difettiamo di sistemi di monitoraggio che ci consentano di fare delle valutazioni non solo sull’efficacia delle leggi ma soprattutto sui processi di riforma del mercato del lavoro (T. Treu, Dal pacchetto Treu alla legge Biagi. Intervista a Tiziano Treu, in M. Tiraboschi (a cura di), Venti anni di Legge Biagi, ADAPT University Press, 2023, pp. 3-10, spec. p. 3). Si tratta di un vulnus che certamente contribuisce ad impedire lo sviluppo di una prospettiva di analisi capace di valutare criticamente le leggi, il loro funzionamento e il relativo impatto sul mercato del lavoro o il raggiungimento degli obiettivi prefissati dal legislatore. Per questa ragione, il ruolo della scienza giuslavoristica in Italia è stato (quasi) sempre quello di ricostruire ed interpretare il sistema giuridico sotto la guida dei concetti e della dommatica giuridica (se non anche delle diverse visioni ideologiche del lavoro) e non inteso invece come campo del sapere in cui, anche attraverso i dati, gli studiosi si dedicano a fare “una prognosi di effettività delle norme” (C. Zoli, Metodo interdisciplinare e attività del giuslavorsita, in LD, 1990, n. 3, p. 407-427, spec. 424), con la finalità di evidenziare cosa non funzioni in ciò che è giuridicamente regolato e come poter migliorare il quadro normativo di riferimento.
 
Un esempio su tutti può certamente rendere maggiormente concrete le suddette osservazioni. Al netto dei primi commenti critici, a pochi anni dalla sua introduzione la certificazione dei contratti di lavoro è stata ritenuta in modo pressoché unanime dalla dottrina giuslavorista di scarsa utilità pratica e finanche marginale rispetto all’esperienza giuridica. Si tratta tuttavia di riflessioni che, per quanto meritorie di attenzione, sono comunque collocate a margine dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 276 del 2003 o delle prime pronunce della magistratura in materia. Infatti, l’approccio che la riflessione giuslavoristica ha continuato a prediligere è stato quello “classico” e cioè occasionale e casistico, intercettando prevalentemente l’istituto della certificazione nella redazione di note di commento alle sentenze, nell’ambito dello studio di normative speciali o nel commentare i testi di legge di riforma del mercato del lavoro. È certamente indubbia l’importanza dell’analisi del caso concreto o delle novelle legislative, specie per quelle materie e quegli istituti non particolarmente “frequentati” dalla giurisprudenza, come lo è stato per la certificazione (parliamo di appena 38 sentenze circa nell’arco di un ventennio).
 
Tuttavia, un istituto che viene concepito dal legislatore allo scopo (principale ma non solo) di contenere il contenzioso in materia di lavoro, come testualmente recita l’art. 75 del d.lgs. n. 276 del 2003, avrebbe meritato ben altre analisi, a partire dal verificare quanti contratti di lavoro (e non) siano stati certificati, quanti ne siano stati impugnati e quanti di quelli impugnati siano stati ritenuti viziati, sotto il profilo giuridico, dall’autorità giudiziaria di competenza. Questa prospettiva di analisi – coltivata in un recente studio monografico al tema (G. Piglialarmi, Contributo allo studio della certificazione nei rapporti di lavoro, ADAPT University Press, 2024) – ha portato a risultati e valutazioni in parte dissenzienti rispetto alla tesi dell’inutilità della certificazione. Con ciò, non si vuole certamente attribuire una “miracolosa” capacità deflattiva alla certificazione, che deve essere osservata in un contesto molto più ampio, nell’ambito del quale ai fini della deflazione delle liti in materia di lavoro non poco hanno giocato un ruolo incisivo anche altri fattori, tra i quali l’innalzamento dei costi di accesso alla giustizia del lavoro e la progressiva riduzione della tutela reale in favore della tutela risarcitoria (che talvolta il lavoratore riesce ad ottenere anche in sede stragiudiziale, attraverso una conciliazione negoziata nelle sedi di cui all’articolo 2113, comma 4, cod. civ.).
 
Ciò non toglie, però, che anche la certificazione abbia contributo in modo significativo. A fronte delle quasi 60.000 istanze presentate presso gli enti certificatori nell’arco di un ventennio, sono circa 38 le pronunce della magistratura che hanno riguardato i contratti di lavoro certificati, di cui circa il 60% si interessano esclusivamente di questioni preliminari all’accertamento di un contratto certificato (e cioè il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 80, comma 4 del d.lgs. n. 276 del 2003, che può essere ritenuto, non a torto, il vero e proprio strumento di deflazione del contenzioso nell’ambito della certificazione), senza entrare nel merito della questione qualificatoria. Si tratta di un dato ragguardevole e che non può essere sottovalutato – come invece pare sia stato fatto – ai fini di una reale “prognosi” sull’utilità dell’istituto. Resta certamente il problema di come “interpretare” questo dato, se un indice che testimonia la capacità della certificazione di ingenerare un effetto psicologico di condizionamento sul lavoratore (disincentivato a ricorrere all’autorità giudiziaria con l’idea che la stipulazione e certificazione del contratto di lavoro innanzi ad un ente terzo renderebbe superfluo ogni tipo di contestazione) o un indice che depone a favore degli organismi della certificazione (in particolare le Commissioni costituite presso le Università che, a quanto consta, sono quelle più attive e rispetto alle quali imprese e lavoratori fanno maggior affidamento), i quali avrebbero operato con scrupolosa aderenza agli orientamenti giurisprudenziali in materia di qualificazione, al cui rispetto, peraltro, le Commissioni universitarie sono vincolate (art. 76, comma 2 del d.lgs. n. 276 del 2003). Oppure, che dette Commissioni abbiano positivamente inciso nella scelta dello strumento contrattuale idoneo a realizzare gli interessi voluti dalle parti attraverso l’attività di assistenza e di consulenza di cui all’art. 81 del d.lgs. n. 276 del 2003; aspetto che incide non poco sul contenimento del contenzioso in materia (sul punto, si rinvia alle considerazioni espresse in G. Piglialarmi, Contributo allo studio della certificazione nei rapporti di lavoro, cit., Cap. III).
 
E che dire, ancora, dell’importanza di conoscere i dati per valutare l’incisività e la capacità di dissuasione dell’impianto sanzionatorio per i licenziamenti illegittimi? È noto a molti che nei mesi scorsi, con due importanti sentenze (sentenza n. 128 del 2024 e sentenza n. 129 del 2024), la Corte Costituzionale ha “ultimato” (o quasi) l’opera di “riscrittura” dell’impianto sanzionatorio del Jobs Act (partito con la sentenza n. 194 del 2018), ampliando le ipotesi della tutela reintegratoria. Relativamente alla sentenza n. 128 del 2024, nella quale si stabilisce che il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo abbia diritto alla tutela reintegratoria nel caso in cui il fatto (economico-organizzativo) posto alla base del licenziamento risulti insussistente, da una lettura coordinata dei punti 5.2., 5.3 e 16 del Considerato in diritto emerge anche che nell’idea della Corte, pur rappresentando un elemento della fattispecie, l’obbligo di repêchage non rientra nel “fatto” posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per tale ragione la relativa violazione darebbe luogo solo alla tutela indennitaria.
 
Tralasciando il dibattito sugli elementi della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, viene da chiedersi quale incisività possa esercitare ora la sentenza n. 128 del 2024 su questa tipologia di licenziamenti e il relativo sistema sanzionatorio: è possibile agitare nuovamente lo spettro della reintegra in un contesto normativo che, relativamente ai licenziamenti a carattere economico-organizzativo, ha cercato di superare la tutela reale in favore di quella indennitaria? Molto probabilmente no se, come molti dicono, “statisticamente” – ma di questo non possiamo esserne certi dato che non vi sono monitoraggi in materia – la gran parte dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo vengono dichiarati illegittimi proprio per violazione dell’obbligo di riallocazione del lavoratore: violazione rispetto alla quale la Corte precisa che permane la tutela indennitaria e non quella reale (cioè, la reintegrazione). Si tratta di una scelta che certamente farà discutere la comunità dei giuslavoristi, soprattutto in punta di diritto.
 
Tuttavia, sarebbe interessante – e qui torna l’importanza di conoscere i dati – discuterne anche nella prospettiva della law&economics: seguendo una nota linea di pensiero (quella di Richard Posner prima e di Guido Calabresi, poi), sarebbe sempre utile ricercare nell’attività interpretativa del diritto una maggiore corrispondenza con la “situazione di mercato”, nell’ottica di favorire un uso razionale delle risorse, tenendo pur sempre presenti i vincoli e i principi che governano un dato ordinamento giuridico. Da questo specifico punto di vista, dunque, siamo sicuri che, nell’ambito dei licenziamenti illegittimi per violazione dell’obbligo di repêchage, aver privilegiato una interpretazione tesa a spostare i “costi” del problema occupazionale dalle imprese allo Stato sia stata la soluzione migliore rispetto al contesto attuale? Se le imprese che si “dimenticano” di riallocare il lavoratore non devono farsi carico del problema occupazionale ma di pagare solo una indennità, quali dati vi sono per dimostrare che oggi in Italia il sistema delle politiche attive abbia una effettiva capacità di riallocare i lavoratori licenziati? Anche perché la Corte Costituzionale avrebbe potuto adottare un’interpretazione in senso contrario, cioè tesa ad agganciare la violazione dell’obbligo di riallocazione alla tutela reintegratoria, di certo non impedita e non contrastante con i principi costituzionali, come pure dimostra la copiosa giurisprudenza della Corte di Cassazione (ex multis, Cass. 11 novembre 2022, n. 33341; Cass. 2 maggio 2018, n. 10435; Cass. 22 marzo 2016, n. 5592; Cass. 13 giugno 2016, n. 12101). Una soluzione che avrebbe spostato i “costi” e il problema occupazionale sulle imprese.
 
La conoscenza dei dati della realtà (in questo caso, dati amministrativi), dunque, per quanto di difficile monitoraggio (e su questo l’intelligenza artificiale potrebbe aiutare non poco) è certamente rilevante per la ricerca e l’analisi giuslavoristica, come ha ricordato di recente Tiziano Treu, che nello sforzo di analizzare la realtà esterna alle norme positive rimarca l’importanza per i giuslavoristi di mantenere vivo il dialogo con i sociologi per la corretta rilevazione dei dati sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo e la comprensione delle determinanti delle tendenze rilevate (T. Treu, Diritto del lavoro e analisi sociale, in Labour, 2024, n. 1, pp. 7-27).
 
Ma non solo. Come già accennato, anche sul piano della interpretazione e dell’applicazione della legge, la conoscenza e la disponibilità del dato gioca la sua parte.  Ne è oltremodo prova, in questo senso, il dibattito sorto attorno al tasso di copertura dei contratti collettivi – portato alla luce dal CNEL in collaborazione con l’INPS – valutato ora come ulteriore indice di rappresentatività delle organizzazioni sindacali che li negoziano (come testimonia la recente sentenza del Tribunale di Campobasso del 10 aprile 2024). L’orizzonte metodologico della scienza giuslavoristica, dunque, pare allargarsi e merita di essere oltremodo innovato.
 
Giovanni Piglialarmi

Ricercatore in diritto del lavoro

Università di Modena e Reggio Emilia

@Gio_Piglialarmi

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