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Bollettino ADAPT 26 aprile 2021, n. 16
Il contratto di apprendistato è stato ampiamente studiato nel corso del Novecento, a partire dalla prima legge del 1955, sino alle grandi riforme degli anni Duemila. Non si contano gli studi di giuristi impegnati nell’analisi e nel commento del dato legale, in continua evoluzione, nella convinzione che il successo o il fallimento dello strumento passasse innanzitutto dagli elementi della fattispecie legale.
Ben poca attenzione è stata invece riservata all’intervento della contrattazione collettiva e delle parti sociali alle quali il legislatore attribuiva il compito (o almeno la possibilità) di implementare e dar attuazione all’istituto. Già la legge 19 gennaio 1955, n. 25, così come discipline più recenti, affidava ai contratti collettivi buona parte della regolamentazione della fattispecie, demandando alle parti sociali di definire, entro limiti determinati, la durata del rapporto, l’età di assunzione, le misure della retribuzione, la prova di idoneità conclusiva e il monte orario dell’insegnamento complementare. Eppure non esiste uno studio sistematico del ruolo delle relazioni sindacali e della contrattazione collettiva in materia di apprendistato, ma solo tentativi isolati, come il contributo di P.A. Varesi, L’alternanza studio-lavoro nella contrattazione collettiva e nella legislazione, Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1981, fasc. 1-2, pt. 1, pp. 203-230, già commentato per la rubrica “Rileggendo i classici” di ADAPT; o il più recente E. Carminati, S. Facello, D. Papa, L’attuazione della Legge Biagi nella Contrattazione Collettiva, in M. Tiraboschi, (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, Giuffrè Editore, Milano, 2011.
Neppure le organizzazioni sindacali hanno realizzato un adeguato numero di analisi e (auto)valutazioni, utili per leggere il fenomeno e la sua regolazione collettiva. Fa in parte eccezione la seconda metà degli anni Settanta quando, in prossimità della legge 1° giugno 1977, n. 285 che ha introdotto il “contratto di formazione”, le analisi sull’apprendistato si sono fatte più consistenti e sono stati pubblicati tre studi nell’ambito delle attività editoriali di alcuni gruppi di ricerca e case editrici legate al sindacato. Si fa riferimento in particolare (i) alla ricerca pubblicata dall’Editrice sindacale della CGIL dall’inequivocabile titolo “Apprendistato: abolizione o riforma?” (G. Sarchielli, G. Mazzotti, M.G. Mercatali, Apprendistato. abolizione o riforma? Editrice Sindacale Italiana, 1976); (ii) alla corposa mappatura della contrattazione collettiva per la formazione dei lavoratori realizzati per la rivista “Formazione Domani” dello IAL – Istituto della Cisl per la Formazione Professionale (M. Polverari, A. La Porta, La contrattazione collettiva per la formazione dei lavoratori, Quaderni “Formazione Domani”, 4, 1976, in particolare pp. 17-55); (iii) al contributo sulla disciplina contrattuale dell’apprendistato contenuto nella (storica, ma oggi chiusa) rivista bimestrale “Contrattazione” della Cisl (E. Giacinto, L’apprendistato nella disciplina contrattuale e legislativa, Contrattazione, Ed. Lavoro, Roma, n. 2/3, 1979, pp. 72-83). Ciascuno dei contributi menzionati può essere consultato open access sul sito Fareapprendistato.it, all’interno della Banca Dati – Studi scientifici.
La maggior parte dei contratti collettivi – oltre il 65% sul totale, secondo la mappatura condotta da Polverari e La Porta – non disponeva alcunché in materia di apprendistato e quelli che intervenivano si limitavano a «riprodurre sic et simpliciter alcune disposizioni legislative» (E. Giacinto, op. cit., p. 81). Eppure gli apprendisti nel secondo dopo guerra rappresentavano una non marginale porzione della forza lavoro, per un totale tra i 500.000 e gli 800.000 ragazzi e (seppur in numero molto minore) ragazze, cioè il 4-6% della forza lavoro italiana complessiva.
La rappresentanza del tempo riteneva di dover rafforzare «l’esile filo che lega il sindacato a questa massa, dispersa e frammentata, di giovani lavoratori» (E. Giacinto, op. cit., p. 73) nella consapevolezza di aver a lungo trascurato il tema dell’occupazione e della formazione professionale dei giovani apprendisti, poiché «il primato è stato largamente assegnato alle ragioni più immediate e dirette di tutela dei lavoratori», cioè a quei contenuti contrattuali oggetto «delle lotte sindacali che hanno determinato lo straordinario accrescimento del potere sindacale all’interno dei luoghi di lavoro» (M. Polverari, A. La Porta, op. cit., p. 17).
L’apprendistato si muoveva «tra mille contraddizioni» e il sindacato manifestava un «vero vuoto di iniziativa politica», incapace di incontrare le esigenze di una fetta consistente del mercato del lavoro disciplinata da un istituto «le cui finalità hanno perduto completamente le originarie motivazioni» (G. Sarchielli, G. Mazzotti, M.G. Mercatali, op. cit., p. 5) e che nella maggior parte dei casi non era altro che «un’etichetta che maschera un vero e proprio rapporto di lavoro con tutte le forme di sfruttamento che ciò comporta» (E. Giacinto, op. cit., p. 79). La durata dell’apprendistato era sproporzionata rispetto alle mansioni assegnate al giovane che non di rado veniva anche pagato a cottimo e coinvolto in turni serali e festivi in spregio ai divieti di legge.
L’inadempimento più grave era senza dubbio relativo al lato formativo, che risultava «nettamente subordinato al processo lavorativo in senso stretto» con responsabilità che, secondo Sarchielli, Mazzotti e Mercatali, vanno distribuite sia al datore di lavoro che all’apprendista. Se il primo era solito eludere la norma di legge che imponeva di destinare l’apprendista ad attività formative e a consentirgli di partecipare ai corsi complementari, approfittando degli scarsi se non assenti controlli dell’Ispettorato del lavoro, anche l’apprendista era piuttosto reticente nel coinvolgersi alle attività formative. Al di là delle «ragioni di “sottomissione alla legge del più forte”, non essendovi allo stato attuale della situazione delle concrete possibilità di controllo sindacale del rapporto apprendista-datore di lavoro», lo stesso apprendista era solito a un «atteggiamento di passività o di rifiuto del momento formativo», inteso come parte estranea all’esperienza personale e lavorativa, «una sorta di “parentesi” da riempiere nel modo meno dispendioso di energia» (G. Sarchielli, G. Mazzotti, M.G. Mercatali, op. cit., p. 77-78).
Dinnanzi a uno scenario così composto, dalle riflessioni del sindacato emergono essenzialmente due soluzioni. La prima, in parte già messa in campo negli anni ’60 e primi anni ’70, era quella di intervenire tramite contrattazione collettiva nella direzione di uniformare le condizioni di lavoro degli apprendisti a quelle dei lavoratori ordinari, nel tentativo di assorbire i primi tra i secondi, superando nei fatti, prima ancora che nella legge, l’istituto dell’apprendistato. Tale uniformizzazione è stata cercata soprattutto in materia retributiva e di durata del periodo di tirocinio, riducendo la percentuale di scarto tra le retribuzioni degli apprendisti e quelle degli operai qualificati, oltre che accorciando la durata del periodo di apprendistato.
La seconda soluzione, espressa anche nel corso di un seminario nazionale sulla formazione professionale della Federazione unitaria (Federazione CGIL-CISL-UIL, “La politica del sindacato per la formazione professionale dei lavoratori”, Ariccia 25 e 26 maggio 1976, in «Formazione Domani», 48, maggio 1976, p. 23), era quella di addivenire a un’abolizione ex lege dell’istituto, in modo da superare del tutto «questo arcaico istituto» (E. Giacinto, op. cit., p. 79) che appariva poco adeguato per l’economia industriale nella quale la formazione dei giovani non trovava più cittadinanza negli ambienti di lavoro.
Tra le riflessioni del sindacato non c’è quella di un possibile intervento della contrattazione collettiva che sia incisivo rispetto alla dimensione formativa dell’apprendistato, oltre che alle condizioni retributive e previdenziali. Anzi. Dalla mappatura di Polverari e La Porta emergeva come dei 52 CCNL che disciplinavano l’apprendistato (sui 157 analizzati), soltanto 24 contratti avevano determinato il monte ore attribuito all’insegnamento complementare. Anche Pier Antonio Varesi, nello studio già citato, sottolineava come fu «soprattutto la contrattazione collettiva a trasformare profondamente l’istituto, declassandolo da momento di formazione a strumento di rapido addestramento professionale» (P.A. Varesi, op. cit., p. 219). Sul punto l’impressione è quella di una certa arrendevolezza se non addirittura di una scelta culturale e politica: cioè quella di ritenere che la formazione dei lavoratori – in fondo – non sia affare del sindacato e della rappresentanza ma dello Stato e del potere pubblico.
Una scelta che oggi, alla luce della nuova centralità che la formazione sta assumendo nei processi produttivi e nell’organizzazione aziendale, meriterebbe di essere ridiscussa. A partire dallo studio e dall’esame dei tanti CCNL che disciplinano l’istituto dell’apprendistato – oggi come allora – senza esaltarne le specialità rispetto al lavoro ordinario e con poca convinzione con riguardo alla sua capacità formativa.
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena