Il Consorzio interuniversitario AlmaLaurea ha diffuso da pochi giorni un rapporto dal titolo “Laurearsi ai tempi della crisi. Come valorizzare gli studi universitari”.
Vi offriamo qui una breve sintesi dello studio e qualche commento dei suoi giovani protagonisti, gli studenti dei percorsi acca-demici e di alta formazione.
L’Università in cifre
Il recente rapporto AlmaLaurea diffuso pochi giorni fa ripercorre l’evoluzione della c.d. istruzione terziaria, ossia quella universitaria, nel periodo 2004 – 2011. Gli autori raccolgono una serie di indicatori, per poi trarre delle conseguenze di sistema.
Il filo conduttore del ragionamento è segnato da una domanda iniziale: la crisi economica e sociale ha modificato e, se sì, in che modo, la capacità formativa degli Atenei e i comportamenti degli studenti? La ricerca condotta tiene espressamente in considerazione l’impatto della riforma del sistema universitario, cioè il passaggio al c.d. 3+2, che risale al 2004. Tale modifica ha determinato un incremento del numero dei laureati rispetto al periodo pre – riforma.
I tecnici di Almalaurea non mancano di rilevare con rammarico la bassa percentuale di popolazione diciannovenne che decide di intraprendere il percorso universitario, pari al 29,4% del totale. Valorizzano, dall’altro lato, i numeri relativi alle “immatricolazioni tardive”, ossia relativi a cittadini della fascia di età 30 – 34 anni che sognano un titolo universitario; ad oggi, pari al 20% di coloro che rientrano in questa fascia nella prospettiva, ritenuta irraggiungibile, del 40% nel 2020. Un bisogno di formazione di alto livello pare, pertanto, diffondersi in Italia.
Proviamo ad aggiungere un’altra domanda: perché il diciannovenne del primo decennio del XXI secolo decide di iscriversi all’Università? Una prima risposta sembrerebbe insistere nel desiderio di mutare il sistema, attraverso la realizzazione di una serie di progetti di miglioramento. L’esperienza universitaria rappresenta un’ineguagliabile fonte di ispirazione e di crescita per guardare criticamente alla realtà, a maggior ragione se vissuta in una città diversa (sotto i più svariati aspetti) da quella d’origine. L’Università è un’ottima occasione per confrontarsi con gli altri, forse la prima vera e propria, per cercare di comprendere chi e cosa si voglia diventare da grandi. Essa rappresenta uno dei luoghi in cui iniziare a elaborare quale contributo fornire al progresso materiale e spirituale della società cui tutti i cittadini sono tenuti, da soli, ma soprattutto attraverso le formazioni sociali, in un’ottica di sussidiarietà orizzontale. Quesiti di tal genere, tuttavia, possono creare imbarazzi e difficoltà in molti. Forse è questa la motivazione che spinge parte del 17% degli iscritti ad abbandonare le Università entro un anno dall’inizio.
Tra gli indicatori che emergono dal rapporto in commento, ampio risalto è assegnato al valore delle esperienze di tirocinio durante il percorso universitario, specie se inerenti gli studi. È dato leggere, infatti, che queste opportunità siano cresciute nel periodo di riferimento e, inoltre, una cospicua percentuale di coloro che ne sono coinvolti possano vantare maggiori probabilità di trovare un’occupazione. Dato, questo, che non stupisce, considerando che le esperienze che combinano formazione e lavoro rappresentano ad oggi il principale canale di avviamento al lavoro di noi giovani. E va aggiunto che ciò lascia trasparire una fiorente e produttiva collaborazione tra mondo accademico e mondo del lavoro, tutt’altro che da disdegnare, soprattutto nel quadro della c.d. #buona scuola e della sempre più invocata alternanza scuola – lavoro.
Tra gli aspetti più problematici, il rapporto segnala la questione dell’effettiva spendibilità del titolo di studio nel mondo del lavoro. Il tema assume risalto in ragione del moltiplicarsi dei titoli universitari che le varie offerte formative propongono, quasi raddoppiati tra il 2001 e il 2010 (da 172 mila del 2001 ai 289 mila del 2010). Molti neolaureati paiono tentati di conseguire un’altra laurea per incrementare le prospettive di inserimento occupazionale, più che per soddisfare un reale bisogno di formazione ulteriore; e questo, con maggiore incidenza nel Mezzogiorno.
Oggetto di attento esame inoltre è il tema della mobilità per motivi di studio e/o lavoro. Molti studenti universitari migrano dal sud – Italia verso gli Atenei del centro – nord. Il numero delle Università, comunque, sta progressivamente aumentando su tutto il territorio nazionale. Anzi: pare affermarsi la tendenza a studiare il più possibile vicino casa, anche per ridurre i costi che l’istruzione universitaria comporta per le famiglie d’origine, a maggior ragione in un periodo di difficoltà economica. Le ragioni di tale spostamento sembrano confluire nella prospettiva di più elevate possibilità di collocamento professionale, una volta esaurito il percorso universitario, in zone del Paese che offrono, tradizionalmente, più posti di lavoro.
Preoccupante, invece, la riflessione concernente la provenienza dei giovani universitari. Difatti, decidono di proseguire gli studi in larga parte studenti che provengono da famiglie socialmente ed economicamente più favorite e da quelle residenti in zone del Paese economicamente più arretrate. Il diritto allo studio, pertanto, sembra non poter essere esercitato allo stesso modo in tutta Italia. A tal proposito, va tenuto presente che le agenzie territoriali per il diritto allo studio, c.d. ADISU, bandiscono annualmente bandi di concorso per borse di studio e posti alloggio, i quali, in linea di principio, dovrebbero favorire gli studenti meritevoli maggiormente in difficoltà. Ciononostante, non di rado intercorre un ampio periodo di tempo tra la pubblicazione delle graduatorie definitive dei vincitori e l’effettiva corresponsione delle risorse; il che non favorisce affatto coloro che non abbiano le disponibilità necessarie per coprire quegli intervalli.
Nel discorso della mobilità, non può che essere spesa qualche parola per coloro che optino per esperienze di studio e/o lavoro all’estero. Una quota crescente di studenti e neolaureati sfrutta i programmi, come l’Erasmus e il progetto Leonardo, per arricchire il proprio patrimonio umano, culturale e professionale. Grande risalto, soprattutto per l’attenzione ripostavi dai mezzi di comunicazione, assume la ricerca di occupazione in altri Paesi, europei e non, perpetrata da molti giovani connazionali. Scelta, questa, troppe volte sbandierata come un’unica via di salvezza.
Il rapporto esamina altresì il tema della valutazione delle offerte formative. Con atteggiamento condivisibilmente critico, è rilevato come la qualità di esse sia desunta esclusivamente dalle votazioni riportate a conclusione dei percorsi. Degna di nota è, in tal senso, l’estrema variabilità delle votazioni accertata nella medesima classe di laurea e, talvolta, anche nello stesso territorio. Alcuna attenzione, invece, è riposta in fattori di contesto, che incidono sia sulle opportunità formative sia sulle prospettive occupazionali, né alla circostanza secondo cui gli studenti costituiscano, al tempo stesso, input e output del percorso formativo. La votazione conseguita è, pertanto, elemento necessario, ma non da solo sufficiente. Deve essere dedicato un adeguato e imprescindibile spazio anche all’età di conseguimento del titolo, al tempo impiegato per conseguirlo, alle eventuali esperienze lavorative durante il percorso (per pagare o meno tutte le spese necessarie al sostentamento). In tale prospettiva, qualche critica è rivolta agli Atenei, che non hanno ancora ben sviluppato le potenzialità dei percorsi non a tempo pieno per gli studenti – lavoratori.
Rimane, infine, solo adombrato il profilo riguardante gli eventuali effetti sulla qualità delle offerte formative al cospetto di un’auspicata istruzione terziaria di massa.
I redattori del rapporto concludono rimarcando con forza la necessità di una maggiore consapevolezza nelle potenzialità dell’istruzione di III livello quale mezzo di crescita della competitività del Paese.
La domanda iniziale pare, dunque aver trovato una serie di risposte. Dal lato degli Atenei, le capacità formative sono senz’altro mutate. Intanto, per quanto riguarda i numeri e la qualità dei percorsi promossi, che devono essere sempre più duttili e confacenti alle nuove caratteristiche della società; anche se un’eccessiva frammentazione del sapere, con il moltiplicarsi dei percorsi di laurea, non può certo essere estremizzata. Dal lato degli studenti, è indubbio che le sfide della crisi conducano a ponderare più a lungo le scelte di formazione. Costoro sembrano avere degli stimoli ulteriori, rappresentati da un bagaglio di conoscenze linguistiche e informatiche che gli universitari di dieci anni fa, al contrario, non potevano vantare, o non in egual misura.
Stefania Fiorini
Laurea Magistrale in Giurisprudenza, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
@s_fiorini89
L’università nelle parole dei protagonisti
Da qualche giorno è disponibile in rete un rapporto, quello Almalaurea, che descrive, fotografa e racconta gli studenti universitari, i laureandi e i laureati italiani. Per chi come noi sta attraversando in questi anni il percorso accademico, la sua lettura è fondamentale, per capire quanto, nei dati diffusi, ci sia del nostro modo di vivere l’Università.
Certamente il primo dato che colpisce e fa riflettere riguarda la scarsa occupabilità dei laureati.
Questa pare causata da scelte non pienamente consapevoli quando, nel corso dell’ultimo anno dei percorsi di scuola superiore, ciascuno studente indica la facoltà universitaria che si propone di frequentare. Anche noi abbiamo vissuto quel momento e ricordiamo bene le domande che ponevamo a noi stessi, ansiosi di ricevere risposte illluminanti: “Cosa mi piace fare?” “In cosa riesco bene e cosa mi consente di sentirti appagato? “Che opportunità di lavoro mi offre questa laurea?”.
Quasi mai le risposte sono univoche, e non solo perché ciascuno è differente dall’altro, è unico e singolare in desideri e talenti. L’eterogeneità delle risposte è spesso anche il frutto di un tentativo, difficile e spesso mal riuscito, di cercare e trovare un giusto compromesso tra interesse e occupazione, o meglio tra interesse e occupabilità, una volta terminati gli studi scolastici. Difficile e non sempre efficace, come detto, la ricerca di questo compromesso. Difficile perché il compromesso per sua natura allontana chi sceglie di accettarlo da una scelta sincera, propria e spontanea, che tuteli le inclinazioni e predisposizioni individuali. Mal riuscito, spesso, perché la rinuncia che il compromesso comporta talvolta danneggia (come suggerisce il secondo significato del termine stesso compromesso) l’individuo riducendone potenzialità ed energia per affrontare il percorso.
Il rapporto Almalaurea conferma questa intuizione: sono pochi infatti i laureati nei settori scientifici rispetto invece a poeti e letterati. E in aggiunta chi decide di frequentare ingegneria o fisica spesso abbandona il percorso al primo anno. Questo evidenzia la mancanza, per la maggior parte dei casi descritti, di un efficace orientamento nelle scuole superiori. Giungere pronti all’incontro con la scelta universitaria significa avere consapevolezza di sé e del proprio curriculum, nel senso più pieno e completo del suo significato, corso della vita. Se uno studente fosse in grado di vedere, negli anni trascorsi prima ancora che in quelli futuri, il filo conduttore di scelte, di passioni e di successi (scolastici, sportivi, sociali e creativi), riuscirebbe certamente ad individuare con maggiore facilità il percorso più adeguato alle sue capacità individuali.
Le università dovrebbero essere protagoniste, al pari delle scuole dalle quali si proviene, di queste politiche di orientamento, mostrando con chiarezza il contenuto dei percorsi offerti e, ancora più importante, i profili professionali a cui essa prepara (spesso non perfettamente coincidenti con le materie studiate) e le competenze necessarie per vestirli pienamente. Quel compromesso, in altri termini, può diventare una scelta, non danneggiata dalla necessità derivante dal contesto ma supportata dalla conoscenza del contributo, in termini di valore, che ciascuno potrebbe dare al mondo e alla realtà in cui vive.
Vivere da protagonisti quindi, il proprio curriculum. Il secondo dato che colpisce leggendo il rapporto Almalaurea, ci consente di dare un altro significato a questa urgenza, di essere parte viva del percorso che si sceglie di seguire. Cresce infatti il numero degli studenti che riesce a terminare nei tempi i corsi di laurea scelti, ma resta ad ogni modo significativo il numero di quanti impiegano più anni, di quelli previsti, per il completamento degli studi.
Siamo convinti che, per far tesoro a pieno dell’università e di ogni percorso formativo che si scelga di intraprendere, trascendendo dai soli, seppur essenziali, concetti nozionistici che qui si apprendono, occorra “vivere” l’università. Non solo quindi lezioni, appunti e gruppi di studio. Ma anche interazione, domande, confronto aperto con docenti e colleghi, condivisione di contenuti, paure, esperienze e progetti. Laurearsi in tempo può non essere uno sforzo se quanto si studia, si impara e si vive è posto al centro di un progetto individuale di vita.
Probabilmente sarebbe più semplice “vivere da protagonisti” se imparassimo (e ci insegnassero) ad approcciarsi ad ogni fase formativa non come se fosse autonoma, singola e a se stante. Se riuscissimo a concepire ogni momento di vita (scuola, università, lavoro, sport, volontariato, etc.) come una evoluzione continua di una ricerca individuale, probabilmente riusciremmo ad orientarci meglio, a scegliere la strada più adatta al nostro talento, a pretendere attenzione e dare ascolto, ai docenti, ai formatori e ai tanti maestri che il mondo ci offre.
Questo sarebbe possibile facilmente creando continuità tra i momenti della transizione dalla scuola, alla università al lavoro, associando esperienze di lavoro agli studi universitari e anticipando la conoscenza dei mestieri per meglio orientare le scelte individuali.
Colpisce quindi, nella descrizione del sistema universitario, il basso, seppure in crescita, grado di contaminazione con il mondo reale, del lavoro, delle professioni e delle imprese.
La didattica dovrebbe uscire, almeno in parte, dalle aule universitarie e spiegare le sue vele nel mondo aziendale, in quello delle organizzazioni professionali, concedendo occasioni di miscelare conoscenze con competenze, sapere con saper fare, il presente degli studenti con il loro futuro.
Claudia Floreani
Studentessa in Lettere moderne, III anno, Università degli Studi di Milano
@claudiafloreani
Michele Loconsole
Studente in Giurisprudenza, IV anno, Università degli Studi di Milano
@m_loconsole
Quello che del dottorato non dicono
Tra i molti altri temi che il recente rapporto pubblicato da AlmaLaurea indaga, vi è anche quello del proseguimento negli studi e nella formazione dopo il conseguimento del diploma di laurea specialistico. Dai dati raccolti si evince che ben il 41% tra coloro che hanno completato il ciclo formativo “3+2” si dichiara deciso a proseguire gli studi: il 12% (oltre 10mila laureati) intraprendendo un percorso di dottorato di ricerca, il 9% tramite Master di secondo livello, mentre valori intorno al 5% indicano la preferenza verso corsi di specializzazione e, in egual misura, verso tirocini o praticantato (n.b. se si presume il primo dato corretto, risulta quindi un 10% ‘mancante’ per il quale non è chiaro in che modo desideri proseguire la formazione).
Sulla base di questa indagine gli autori del rapporto si pongono dunque un quesito fondamentale: tale dato dimostra che quasi la metà dei laureati, dopo aver completato un percorso di studi di cinque anni, sente ancora un desiderio di formazione ulteriore o questa decisione avviene poiché si riscontrano difficoltà nell’inserimento nel mercato del lavoro?
Il fatto che la propensione al proseguimento degli studi registri valori più alti nel mezzogiorno (dove i tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, sono più elevati) spinge gli autori a considerare come maggiormente valida la seconda opzione.
Tale osservazione, tuttavia, pare spostare l’attenzione rispetto a quale sia il primo e conseguente quesito da porsi, poiché, delineando nella domanda già due possibili risposte, potrebbe non esaurire il ventaglio di possibilità e non individuare un quadro esaustivo.
In modo forse più immediato, dunque, non verrebbe da chiedersi se, dopo cinque anni di percorso universitario, un giovane laureato italiano si senta davvero pronto per il mondo del lavoro?
In aggiunta, la logica dietro la scelta di intraprendere un dottorato o un master di secondo livello può essere analizzata sullo stesso piano?
Personalmente, data anche l’esperienza di studio all’estero, mi sono spesso trovata a chiedermi perché, essendo già in ritardo di uno o due anni rispetto ai colleghi Francesi, Inglesi, Irlandesi o Spagnoli (in questi Paesi la strutturazione del percorso universitario permette di ottenere la laurea uno o due anni in anticipo rispetto a quanto avviene in Italia), un laureato “specialistico” senta ancora il bisogno di un master di secondo livello.
Il discorso, infatti, meriterebbe di essere approfondito e analizzato senza fare “di tutta l’erba un fascio”, bensì valorizzando la differente logica dietro la scelta di continuare un percorso formativo.
Se, da una parte, il Master e le Scuole di Specializzazioni hanno l’obiettivo di formare su argomenti specifici e preparare in modo più pratico al mondo del lavoro rispetto quanto fatto in cinque anni di formazione accademica tradizionale (richiedendo elevati costi d’iscrizione e posticipando l’ingresso nel mercato del lavoro), dall’altra, il dottorato e il tirocinio non possono essere considerati parte della stessa ‘famiglia’, come nemmeno può esserlo il praticantato, passaggio obbligatorio per ottenere l’accesso a determinate professioni, da farsi, ahimè, dopo e non durante il percorso di studio.
Sicuramente la scelta del dottorato non può (e non deve) essere motivata dalla paura di non potersi inserire nel mercato del lavoro. Intraprendere un percorso dottorale è senz’altro frutto di un’esigenza e una passione: l’esigenza di avere formazione, esperienza nell’insegnamento e nella pubblicazione, la possibilità di lavorare a fianco di esperti; la passione per la materia di studio, la voglia di dedicarsi a tempo pieno nell’approfondimento, il desiderio di continuare in un ambito specifico in cui ancora non ci si sente completamente formati.
Da neo-dottoranda, inoltre posso aggiungere che il dottorato non è solo la risposta a queste motivazioni, spesso personali, ma è molto di più: è la visione di un progetto.
Invece di proseguire con un master (o, come sarebbe stato nel mio caso, la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali) o accettare la proposta di uno stage in una grande e nota azienda, la prospettiva di ricerca su lungo periodo e la possibilità di collegare l’alta formazione con l’esperienza (di lavoro nel caso di un dottorato in alta formazione, o puramente accademica nel caso di un dottorato “classico”) hanno indubbiamente attirato la mia attenzione.
In aggiunta, in un incontro di orientamento universitario dal titolo Lavorare in Europa, avevo appreso che oramai il dottorato, meglio ancora se fatto in inglese, è un requisito importante per poter accedere alle posizioni lavorative di rilievo internazionale, soprattutto in Unione europea.
L’esperienza di ricerca è un tentativo di comprensione delle dinamiche e dei problemi presenti nell’ambito di studio, ed è il ponte che collega la teoria studiata in quei cinque lunghi anni con la realtà delle cose, con il mondo esterno. Attraverso questo percorso si ha la possibilità di veder riconosciuto il proprio progetto e il proprio lavoro con un titolo che corrisponde al massimo livello di formazione, considerato ormai necessario per poter aspirare ad una posizione lavorativa accademica.
Tutto ciò non può dunque essere individuato in una scelta di ‘ripiego’ rispetto ad un mercato del lavoro che non offre possibilità, né può essere analizzato congiuntamente ad altri percorsi strutturalmente diversi, volti più che altro a colmare i vuoti di competenze lasciati dal percorso universitario, ed improntati ad una preparazione “pratica” al mondo del lavoro (cosa che forse potrebbe, o dovrebbe, farsi già durante il corso specialistico?). Né può considerarsi nel nostro Paese, in cui son ben note la scarsa presenza di risorse e le limitatissime possibilità di inserimento lavorativo nelle Università, la scelta dottorale come valida fonte di speranza per una futura carriera accademica.
Il fatto che molti studenti meritevoli, impegnatisi a fondo nel percorso universitario con risultati brillanti, mostrino interesse nel proseguimento in percorsi di ricerca non dovrebbe essere un dato da valutare in negativo, o come fenomeno preoccupante. La ricchezza prodotta dalla ricerca, il valore generato dalle Università Italiane, è qualcosa che ancora nel dibattito pubblico non si riesce a comprendere e stimare in giusta misura.
È proprio per questo motivo che, purtroppo, buona parte di coloro facente parte di quel 12% andrà a trovare all’estero l’opportunità per cui sente la vocazione.
In conclusione, l’evidente difficoltà a percepire e interpretare adeguatamente il significato ed il plusvalore che questo importante numero di laureati interessati alla ricerca accademica potrebbe portare con sé, e a maggior ragione da parte di un consorzio universitario quale AlmaLaurea, è sintomo di un sistema accademico di Alta formazione e di ricerca arrugginito, che non potrà tenere il passo con il panorama internazionale ancora per molto tempo, fino a quando non ci sarà un vero e proprio mutamento di paradigma.
Cristina Inversi
PhD student in Employment Regulation, NUI Galway, Ireland
@CristinaInversi
Pdf
Lezioni di Employability/38-39-40 – Università: i suoi numeri, le sue strade, il suo valore