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Bollettino ADAPT 14 giugno 2021, n. 23
La comunicazione digitale oggi rappresenta una grande opportunità per lo scambio di opinioni. Eppure, di frequente i social media e le diverse piattaforme per la socializzazione (WhatsApp, Facebook, Instagram, LinkedIn e simili) vengono usati in maniera disinvolta e senza tenere conto delle possibili conseguenze derivanti dai contenuti riprodotti e dalle immagini condivise, sia in forma privata che pubblica.
Questa situazione comporta dei riflessi rilevanti anche nell’ambito lavorativo, i cui dipendenti troppo spesso dimenticano che la libertà di espressione e il diritto di critica, costituzionalmente garantiti, potrebbero contrapporsi con l’esigenza di tutelare la reputazione e l’immagine dell’impresa in cui lavorano, specie se dal profilo digitale personale emerge la relativa posizione professionale.
In particolare, l’uso improprio dei social media da parte dei lavoratori può tradursi in un comportamento disciplinarmente rilevante quando detta condotta sia di gravità tale da minare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro e provocare un danno all’organizzazione aziendale, alla reputazione e al decoro dell’immagine in generale, con riflessi rilevanti sulla brand reputation.
Pertanto, il dipendente deve tenere un comportamento anche extra lavorativo che sia tale da non ledere né gli interessi morali e patrimoniali del datore di lavoro, né la fiducia che in diversa misura e in diversa forma lega le parti nella durata del rapporto.
In altre parole, anche ciò che viene scritto sui social, anche fuori dall’orario di lavoro, può essere usato in sede disciplinare se presenta contenuti offensivi verso il datore di lavoro e i colleghi, ma anche quando questi contenuti siano indirizzati a una massa indistinta di persone.
Una frase razzista o sessista che genera un danno d’immagine all’azienda, un insulto pesante ad un collega, la rivelazione di fatti che dovrebbero restare riservati, sono tutti esempi di come, con poche righe mal scritte sui social media (che si tratti di Twitter, LinkedIn, Facebook o affini) un dipendente può mettere a rischio il proprio posto di lavoro. Rischio che non sempre si concretizza, in quanto ad oggi la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha ancora un approccio molto variabile sul tema.
Un primo aspetto da tenere in considerazione, infatti, è il bilanciamento delle contrapposte esigenze che verte per l’appunto sull’esistenza, da un lato, del datore di lavoro a tutelare la sua azienda soprattutto per quanto riguarda gli aspetti reputazionali e, dall’altro, il diritto di critica del lavoratore anche aspro ed estremo rispetto all’eventuale superamento dei limiti del decoro.
Non mancano – e anzi sono la maggioranza – le decisioni che riconoscono la possibilità di sanzionare e persino licenziare per giusta causa il dipendente che pubblica sui social media frasi offensive nei confronti dell’azienda e del suo operato o comunque rivolte ai colleghi.
In tal senso, di recente, si è espressa la Suprema Corte di Cassazione (Cass. 27 aprile 2018, n. 10280), ritenendo legittimo il licenziamento di una lavoratrice che aveva pubblicato sulla propria bacheca Facebook affermazioni di disprezzo dei confronti della società datrice di lavoro: “Posto che la diffusione di un messaggio offensivo attraverso l’uso di una bacheca Facebook assume valenza diffamatoria, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, integra giusta causa di licenziamento la pubblicazione da parte di una lavoratrice nella propria bacheca Facebook di affermazioni di disprezzo nei confronti della società datrice di lavoro, risultando irrilevante la mancata indicazione del legale rappresentante, perché agevolmente identificabile”. In maniera conforme aveva già deciso anche il Tribunale di Ivrea, con ordinanza del 28 gennaio 2015, ritenendo legittimo il licenziamento di un lavoratore che aveva usato la bacheca virtuale di Facebook per scrivere frasi offensive coinvolgenti i colleghi e il datore di lavoro.
Molteplici sono anche le pronunce dei diversi Tribunali che hanno evidenziato l’esistenza di condotte concernenti la vita privata del lavoratore che possono in concreto risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che connota il rapporto di subordinazione, nel senso che si riflettono sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative di un futuro affidabile adempimento dell’obbligazione lavorativa. Tra questi, ad esempio, rinveniamo l’uso improprio del social Twitter per pubblicare contenuti offensivi e denigratori rivolti a soggetti terzi rispetto ai colleghi di lavoro (Trib. Busto Arsizio, 20 febbraio 2018). Anche il Tribunale di Bergamo, con ordinanza del 24 dicembre 2015, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa nei confronti di un lavoratore che ha postato sul proprio profilo Facebook una foto nella quale egli è ritratto mentre impugna un’arma.
Tuttavia, detta linea rigorosa, in casi più isolati, viene bilanciata da altre pronunce che fanno invece prevalere il diritto di critica del lavoratore, ritenendo illegittimo il licenziamento del dipendente che nel corso di una conversazione su Facebook rivolge parole ingiuriose nei confronti dell’amministratore delegato della società datrice di lavoro (Cass. 10 settembre 2018, n. 21965).
Un secondo aspetto che è emerso nella giurisprudenza più recente (Trib. Firenze, 16 ottobre 2019) riguarda anche la platea che riceve eventuali messaggi offensivi. Secondo questo orientamento la rilevanza disciplinare o meno dei messaggi e delle immagini condivise cambia a seconda che gli stessi siano pubblicati su profili social aperti a tutti o su account o chat il cui accesso è filtrato e riservato. In quest’ultimo caso la giurisprudenza tende ad equiparare l’invio dei messaggi a forme di corrispondenza privata che, come tali, sono costituzionalmente garantiti e non possono essere usati per avviare un iter disciplinare nei confronti di un dipendente.
Nel caso, invece, si tratti della condivisione dei messaggi e immagini nei confronti di una platea indistinta, il cui contenuto è di natura offensiva, questo comportamento può rilevare sul piano disciplinare e può quindi essere contestato al lavoratore e utilizzato come motivo di licenziamento, sempre che sussistano gli elementi di gravità richiesti dalla legge e dalla contrattazione collettiva applicata.
Non vi è dubbio pertanto che le esternazioni del dipendente tramite social network, anche relative alla vita extra lavorativa, possano essere in contrasto con i principi e i valori sui quali si fonda l’impresa datoriale e che basti un click per provocare una lesione al patrimonio aziendale tale da considerare compromesso il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore.
Per queste ragioni, è sempre più frequente, al fine di dirimere spiacevoli “inconvenienti”, la predisposizione da parte del datore di lavoro di policy che regolamentano, sotto il profilo disciplinare, l’utilizzo dei social media, come vere e proprie regole di compliance aziendale, contenenti comportamenti da evitare per non ledere il rapporto di fiducia con l’azienda.
Ad ogni modo, sulla scorta dell’evoluzione giurisprudenziale sul tema è comunque quasi sempre pacifico che spetta al datore di lavoro valutare se i comportamenti tenuti dal lavoratore sui social network, abbiano o meno leso sotto il profilo disciplinare il rapporto fiduciario, rimanendo comunque complessa la definizione dei confini del legittimo esercizio del potere disciplinare, dovendosi operare un equilibrato contemperamento tra diritto di critica e dovere di fedeltà e di riservatezza.
ADAPT Junior Fellow