Mercoledì 25 marzo 2015 La dichiarazione del Ministro del lavoro, Giuliano Poletti, sui giorni di vacanza degli studenti («un mese di vacanza va bene. Ma non c’è un obbligo di farne tre») ha scatenato un putiferio mediatico. Nonostante l’assoluta mancanza di originalità (è questo un tema di discussione ricorrente), ancora una volta opinionisti, politici, sindacalisti eccetera si sono divisi in due fazioni: chi, forte delle statistiche europee che ci vedono primo Paese in Europa per numero di giorni di riposo goduti dai nostri giovani, ha cantato in coro il ritornello della produttività e della competitività (mancanti); chi, figlio primogenito dello scolasticismo del quale siamo tutti permeati, ha argomentato circa l’importanza dello studio, del riposo, dell’ozio e, soprattutto, della distanza, quando ancora possibile, dal mondo del lavoro.
Tutto secondo copione: il caos delle opinioni coprirà le proposte e tutto finirà nel dimenticatoio, fino a quando un prossimo ministro risolleverà il polverone. L’impressione è che le due “curve”, le due posizioni più intransigenti che guadagnano gli spazi sui giornali proprio perché più estreme e quindi funzionali ai titoli ad effetto, non centrino il cuore del problema. Gli integralisti della produttività giudicano un grave spreco di tempo avere persone in età da lavoro parcheggiate per tre mesi, vaganti tra spiagge e monti.
Non capendo però che l’esperienza del tempo libero, la consapevole scelta su come impegnarlo o come perderlo, è una esperienza decisamente educativa per un sedicenne che si affaccia alla stagione della vita nella quale non saranno più gli altri a decidere per lui e a dirgli cosa fare del suo tempo. D’altra parte, gli integralisti della vacanza lunga non paiono convinti dalle ragioni pedagogiche del tempo libero, bensì accecati dal pregiudizio verso il giacimento educativo del lavoro.
Per i teorici dei due tempi (prima la scuola, e solo la scuola; poi l’impresa) il lavoro è sfruttamento (versione novecentesca) o fatica inevitabile (disillusa versione moderna). Di conseguenza si lavora, a malincuore, proprio per guadagnarsi il tempo libero. Si subisce l’alienazione del lavoro per avere il tempo di dimenticarlo e vivere per davvero. Se si crede questo, perché mai anticipare il contatto tra giovani e lavoro? Al contrario, l’estate liceale diventa il motivetto nostalgico al quale ritornare col pensiero per tutta la vita: “i bei tempi andati” (e in effetti di retorica televisiva in questo senso ce n’è tanta). Il problema su cui si sta dividendo l’Italia è quindi mal posto.
Non si tratta di un referendum sulle vacanze lunghe. La partita che si gioca è ben più importante e meno banale. La preoccupazione del legislatore non può essere quella di riempire il tempo agli adolescenti italiani, ma come rendere possibile, incoraggiare, proposte formative anche nel tempo di vacanza.
In questo senso è interessante quanto anticipato dal sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi: il periodo estivo può diventare il momento per attivare percorsi di alternanza scuola-lavoro, ovvero tirocini formativi previsti nel piano di studi del giovane. Il disegno di riforma “La Buona Scuola” costruisce l’intero capitolo del rapporto tra scuola e lavoro proprio attorno al metodo dell’alternanza formativa. Parte dei mesi estivi può quindi diventare occasione di esperienza in azienda, full time e non pagata. Questo dell’eventuale stipendio è un altro argomento sul quale si leggono posizioni di principio dai toni apocalittici. Ha dichiarato Mimmo Pantaleo, segretario scuola della Cgil: «Prende piede l’idea che gli studenti si possano piegare alle richieste dell’impresa. I giovani li utilizziamo a gratis per “esperienze lavorative” mascherate da stage non retribuiti».
Emerge chiaramente, ancora una volta, il problema di fondo: tenere lontano i ragazzi dal lavoro. Che poi vuole dire anche evitargli la fatica e, in fondo, la realtà. Tenere lontano i ragazzi dalla realtà vera, per evitare che eccessive dosi di realtà (lavorativa) li segnino per sempre o anticipino le sofferenze future. Questo è l’ostacolo – culturale, non certo normativo — col quale si sono scontrate tutte le proposte sull’apprendistato a scuola e sull’integrazione tra formazione e lavoro e che dovrà essere.
Presidente ADAPT
@EMassagli
* Pubblicato anche in Sussidiario.net, 25 marzo 2015.