In Italia, il diritto alla tutela della salute e della sicurezza sul posto di lavoro non è garantito in modo sufficiente. È ciò che emerge dalle conclusioni del rapporto di valutazione emesso dal Comitato per i diritti sociali del Consiglio d’Europa riferite all’anno 2013. A giudizio degli estensori, l’ordinamento italiano viola alcune delle norme sancite dalla Carta sociale europea (CSE) in materia di sicurezza sul lavoro.
In primo luogo, confermando i giudizi espressi nei report del 2007 e del 2009, il Comitato rileva l’assenza di una politica nazionale di indirizzo e coordinamento conforme alla Strategia comunitaria 2007-2012 per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro. In effetti, i compiti di definizione delle linee comuni delle politiche nazionali e di individuazione degli obiettivi e programmi dell’azione pubblica di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro sono attribuiti, ai sensi dell’art. 5, comma 3, lett. a e b, d.lgs. n. 81/2008 (Testo Unico della salute e sicurezza sul lavoro), al Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza, istituito presso il Ministero della salute e formato da rappresentanti ministeriali e regionali, previa consultazione delle parti sociali. Tale organo collegiale, pur avendo emanato alcuni significativi documenti condivisi come l’Atto di indirizzo per le politiche attive in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro (20 dicembre 2012) e le Indicazioni ai comitati regionali di coordinamento per la definizione della programmazione per l’anno 2013 delle attività di vigilanza ai fini del loro coordinamento (24 gennaio 2013), non ha ad oggi prodotto le organiche linee guida nazionali in tema di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali prescritte dall’art. 3 della CSE.
Nella consapevolezza di tale mancanza ed anche al fine di dare risposta alle autorità europee, il 12 giugno 2013, la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, di cui all’art. 6 del TU Sicurezza, ha approvato le Proposte della Commissione consultiva permanente per una strategia nazionale di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, dando avvio al processo di elaborazione di una vera e propria strategia nazionale per la salute e sicurezza sul lavoro. Questa dovrebbe in prospettiva operare in un arco temporale triennale di riferimento ed essere pianificata secondo una procedura che veda come soggetto proponente il predetto Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Quest’ultimo, di concerto con i Ministri competenti, si occuperà altresì di valutare, modificare ed integrare le proposte adottate dalla Commissione.
Secondo le valutazione del Comitato per i diritti sociali del Consiglio d’Europa, ad essere deficitario è anche il sistema di gestione dei rischi sul posto di lavoro. Carenti sono considerate le misure per l’implementazione di un risk assessment che tenga conto dei pericoli connessi alla prestazione lavorativa o che sopravvengono nel corso della stessa – con un’espressione che sembra suggerire una valutazione di tutti i rischi, sia quelli strettamente legati alla prestazione lavorativa (c.d. rischi safety), sia quelli derivanti da fattori esogeni come ad esempio l’attività criminosa di terzi (c.d. rischi security) – nonché l’organizzazione di cautele preventive calibrate sulla base dei rischi riscontrati e delle attività di informazione e formazione dei lavoratori.
Le censure di principio del Comitato sembrano essere rivolte non solo al dato normativo formale, ma anche all’applicazione sostanziale dello stesso. Infatti, sebbene l’art. 28 del TU precisi espressamente che la valutazione debba riguardare «tutti i rischi» compresi quelli afferenti «a gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari», citando a titolo meramente esemplificativo i rischi collegati allo stress lavoro-correlato, quelli riguardanti le donne in stato di gravidanza e quelli riconducibili a differenze di età, di genere, di provenienza geografica, o di tipologia contrattuale di assunzione, non si può revocare in dubbio che il potenziale onnicomprensivo della norma continui in molti contesti aziendali a non essere compreso, valorizzato e attuato in modo adeguato.
Guardando più da vicino alle contestazioni poi, le principali questioni concernono la tardiva determinazione (e attuazione) delle procedure standardizzate per la redazione del documento di valutazione dei rischi nelle aziende che occupano fino a 10 dipendenti, già parziale oggetto della procedura di infrazione 2010/4227 per il mancato recepimento della direttiva europea quadro 89/391/CEE, avviata dalla Commissione europea e ancora in corso, nonché la non avvenuta adozione del sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi previsto dall’art. 27 del TU.
Per quel che inerisce al primo punto, l’ordinamento italiano ha già provveduto a porre rimedio. Seppur in ritardo rispetto alla data del 31 dicembre 2010 fissata inizialmente dall’art. 6, comma 8, lett. f del TU, infatti, le procedure standardizzate sono state elaborate dalla Commissione consultiva permanente e recepite con il Decreto interministeriale 30 novembre 2012. Essendo entrate a pieno regime a partire dal 1º luglio 2013, dopo che la legge di stabilità 2013 aveva prorogato al 30 giugno 2013 la facoltà di ricorrere all’autocertificazione, è possibile ipotizzare che le verifiche del Comitato per i diritti sociali siano state effettuate in un periodo antecedente tale data.
Quanto al secondo aspetto, l’art. 27 del TU, così come recentemente modificato dal d.l. n. 68/2013 (c.d. Decreto del fare), demanda ad un d.P.R. l’individuazione dei settori e dei criteri finalizzati alla definizione di un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, fondato sulla base del livello di esperienza, competenza e conoscenza acquisita, nonché sull’applicazione di determinati standard contrattuali e organizzativi nell’impiego della manodopera. L’appunto mosso dal Comitato per i diritti sociali, pur cogliendo lo spirito dell’art. 27 d.lgs. n. 81/2008, appare almeno in parte viziato da un equivoco giuridico di fondo. Si legge infatti nel rapporto che il rispetto dei criteri definiti nel sistema di qualificazione sarebbe un requisito imprescindibile per l’ottenimento dell’autorizzazione ad operare in un determinato settore, laddove l’art. 27, comma 2 del TU afferma che «il possesso dei requisiti per ottenere la qualificazione costituisce elemento preferenziale per la partecipazione alle gare relative agli appalti e subappalti pubblici e per l’accesso ad agevolazioni, finanziamenti e contributi a carico della finanza pubblica», prevedendo solo per l’edilizia che il meccanismo di qualificazione delle imprese, nella forma della cosiddetta “patente a punti”, funzioni da sbarramento vero e proprio al mercato di riferimento.
A norma dell’art. 6, comma 8, lett. G, d.lgs. n. 81/2008, il d.P.R. di adozione del sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi avrebbe dovuto essere emanato entro dodici mesi dall’entrata in vigore del TU, sulla base dei criteri indicati dalla Commissione consultiva permanente, sentito il parere della Conferenza Stato, regioni e province autonome. I lavori dell’apposito comitato, costituitosi nel 2010 in seno alla Commissione per occuparsi della questione non hanno tuttavia condotto sinora a risultati concreti essendosi arrestati da più di un anno.
Inoltre, nonostante l’intervento del Decreto del fare, volto a semplificarne la procedura di approvazione, il d.P.R. di adozione del sistema di qualificazione continua allo stato a far parte della schiera degli oltre venti decreti attuativi del Testo Unico ancora inattuati.
Si auspica dunque che la bocciatura dell’Italia in materia possa servire da stimolo per la messa a regime di uno strumento normativo fermo da troppo tempo, tenuto anche conto delle ulteriori spinte che in tal senso potrebbero provenire dalla implementazione delle nuove direttive UE in materia di appalti. Lo scorso 15 gennaio, infatti, il Parlamento europeo ha approvato in seduta plenaria i testi delle tre nuove Direttive in materia di appalti del settore ordinario (servizi, lavori e forniture), di appalti del settore speciale (acqua, energia, trasporti e postali) e di concessioni. La nuova normativa, già concordata con il Consiglio nel giugno 2013, modifica le norme attuali sugli appalti pubblici comunitari. Per la prima volta, sono stabilite norme comuni UE in materia di contratti di concessione, per promuovere una concorrenza leale e garantire il miglior rapporto qualità-prezzo, introducendo nuovi criteri di aggiudicazione.
Le nuove Direttive entreranno in vigore entro il prossimo mese di marzo (dopo la ratifica del Consiglio europeo e la pubblicazione sulla G.U.U.E.) e dovranno essere recepite da tutti i Paesi membri entro marzo 2016. Si prevedono regole più severe in materia di subappalto. Invero, al fine di combattere il dumping sociale e garantire che i diritti dei lavoratori siano rispettati, le nuove leggi comprenderanno norme per il subappalto e disposizioni più severe sulle «offerte anormalmente basse». I contraenti che non rispettano la normativa UE sul lavoro potranno essere esclusi dalla presentazione di offerte, secondo un meccanismo che prospetticamente potrebbe rafforzare e rendere più rigido quel meccanismo di selezione delle imprese, nell’accesso agli appalti, già contemplato dal sistema di qualificazione delle imprese.
Francesco Catalfamo
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@FraCatalfamo
Maria Giovannone
Senior Research Fellow di ADAPT
@MariaGiovannone
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Valutazione dei rischi e sistema di qualificazione delle imprese: perché il Consiglio d’Europa ha bocciato l’Italia?