Verso l’annullamento della Direttiva europea sui salari minimi adeguati?

 

Sono state presentate oggi le conclusioni dell’Avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea riguardanti la causa C-19/23, promossa dalla Danimarca e sostenuta dalla Svezia, per l’annullamento della Direttiva (UE) 2022/2041 sui salari minimi adeguati nell’Unione Europea. Tali conclusioni invitano la Corte ad accogliere il ricorso danese e a dichiarare nulla la direttiva in questione (sull’iter di approvazione della direttiva si veda, D. Porcheddu, La proposta di un salario minimo: le possibili iniziative comunitarie e le posizioni delle parti sociali europee, in Bollettino ADAPT, 21 settembre 2020, n. 34; sulla proposta di direttiva, v. S. Spattini, La proposta europea di salario minimo legale: il punto di vista italiano e comparato, in Bollettino ADAPT, 21 settembre 2020, n. 34 – aggiornato il 10 novembre 2020; sull’approvazione della direttiva, si veda, S. Spattini, Salari minimi adeguati: pubblicata la direttiva europea in Bollettino ADAPT 2 novembre 2022, n. 37 ).

 

Il quadro normativo

 

L’articolo 153 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea (TFUE) disciplina le competenze dell’Unione in materia di politica sociale, fissando i limiti e le condizioni per l’adozione di misure relative a un insieme di materie che sono tassativamente elencante. Sebbene al paragrafo 1, lettera b), si preveda la possibilità di adottare misure relative alle «condizioni di lavoro», il paragrafo 5 esclude esplicitamente alcune materie dalla competenza dell’Unione, tra cui le retribuzioni e il diritto di associazione. Questo articolo stabilisce, infatti, che: «Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata».

 

La richiesta di annullamento

 

Il ricorso della Danimarca si fonda su due motivi principali. La prima motivazione riguarda il fatto che legiferando in materia di retribuzioni e di diritto di associazione, l’adozione della direttiva eccede le competenze dell’Unione europea, poiché viola l’articolo 153, par. 5, TFUE. Infatti, mentre il Parlamento e il Consiglio sono competenti ad adottare direttive che stabiliscono requisiti minimi per quanto riguarda le «condizioni di lavoro» (in applicazione dell’articolo 153, paragrafo 2, lettera b), TFUE, in combinato disposto con l’articolo 153, paragrafo 1, lettera b), TFUE), non possono legiferare nei settori delle retribuzioni o del diritto di associazione (oltre agli altri elencati).

 

In secondo luogo, il governo danese sostiene che, anche supponendo che la direttiva non rientri nell’ambito delle esclusioni relative alla retribuzione e del diritto di associazione di cui all’articolo 153, paragrafo 5, TFUE, il Parlamento e il Consiglio non hanno seguito una procedura valida. Infatti, il governo danese osserva che la direttiva persegue due distinti obiettivi: disciplinare le «condizioni di lavoro» (articolo 153, paragrafo 1, lettera b), TFUE) e la «rappresentazione e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori (…)» (articolo 153, paragrafo 1, lettera f), TFUE). Ma le procedure decisionali per l’adozione di atti giuridici in forza di queste due basi giuridiche hanno presupposti diversi. In particolare, in uno caso (art. 153, par. 1, lettera f), TFUE) è richiesta l’unanimità nel Consiglio. Contrariamente, per l’approvazione della direttiva è stata utilizzata la procedura (prevista dall’ art. 153, par. 1, lettera b), TFUE) per la quale non è prevista l’unanimità. Peraltro, infatti, la direttiva è stata approvata con il voto contrario proprio di Danimarca e Svezia e l’astensione dell’Ungheria.

 

Gli errori argomentativi del legislatore euro-unitario

 

L’Avvocato generale sottolinea come il legislatore euro-unitario fosse consapevole che adottando la direttiva stesse camminando su un terreno scivoloso rispetto all’esclusione dalle competenze dell’Unione europea della materia della retribuzione (contenuta nell’articolo 153, paragrafo 5, TFUE). Ritiene, tuttavia, che l’interpretazione dell’esclusione della materia della retribuzione adottata dal legislatore, presa a base della direttiva, si fonda su tre argomentazioni erronee.

 

1. L’esclusione della «retribuzione» è limitata all’armonizzazione del livello dei salari. L’Avvocato generale evidenzia che l’articolo 153, paragrafo 5, TFUE, utilizza un concetto ampio di «retribuzione» (già interpretato in questo senso dalla Corte), includendo tutti gli aspetti relativi alla retribuzione, comprese le modalità o le procedure per la fissazione del livello di retribuzione, disciplinate dalla direttiva. Non è, pertanto, sufficiente che la direttiva si limiti a non fissare i livelli retributivi, ma il fatto che si occupi in generale della materia comporta la violazione del menzionato articolo.

2. I requisiti minimi formulati in modo ampio sono accettabili (per intervenire anche in materia di retribuzioni). Per intervenire sulla materia delle «condizioni di lavoro», diverse dalla retribuzione, il criterio è quello dei requisiti minimi, cioè anche se esiste una competenza euro-unitaria, è consentito solo di fissare requisiti minimi, ovvero un livello minimo di obblighi. Sulla materia della retribuzione non esiste una competenza dell’Unione europea, quindi non è consentita alcuna forma di intervento da parte del legislatore euro-unitario e di armonizzazione. Se il legislatore stabilisse requisiti minimi in materia di retribuzione, supererebbe già le proprie competenze, invadendo quelle degli Stati membri.

3. Se una misura non viola l’autonomia contrattuale delle parti sociali, essa è conforme all’esclusione della retribuzione. La Corte ha in altra circostanza dichiarato che lo scopo dell’esclusione della retribuzione dalle competenze dell’Unione europea è quello di tutelare la libertà contrattuale delle parti sociali. Tuttavia, l’esclusione della retribuzione può rispondere anche ad altri scopi. Pertanto, l’esclusione della retribuzione dalle competenze dell’Unione europea contribuisce a salvaguardare l’autonomia contrattuale delle parti sociali, ma non è vero il contrario. Pertanto, se la direttiva salvaguarda l’autonomia collettiva, non significa che garantisce l’esclusione dell’intervento sul tema della retribuzione.

 

Le conclusioni dell’avvocato generale

 

L’avvocato generale analizza anche le motivazioni delle richieste di annullamento relative alla violazione delle competenze dell’Unione europea con riferimento alla materia di diritto di associazione e alle procedure decisionali adottate. In questi casi, ritiene che le motivazioni debbano essere respinte.

 

Nel complesso, l’Avvocato generale raccomanda alla Corte di annullare integralmente la direttiva in quanto incompatibile con l’articolo 153, paragrafo 5, TFUE rispetto al tema della retribuzione, poiché essa interferisce in maniera diretta con le competenze degli Stati membri, compromettendo l’autonomia dei loro sistemi nazionali di determinazione salariale.

 

La decisione finale (attesa entro fine anno) spetterà alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che generalmente segue le conclusioni presentate dell’Avvocato generale. È evidente che l’annullamento della direttiva sui salari minimi legali rimuoverebbe gli obblighi per gli Stati membri stabiliti dalla direttiva stessa. Pertanto, gli Stati potrebbero modificare le disposizioni degli ordinamenti nazionali che sono nel frattempo state adottate al fine di trasporre le disposizioni previste dalla Direttiva (sulla trasposizione della direttiva, si veda S. Spattini, Il recepimento della direttiva Ue sui salari minimi adeguati: l’Italia nel confronto comparato con gli altri Stati membri, Working Paper ADAPT n. 12/2024, che tuttavia rappresenta una situazione nel frattempo evoluta, con le comunicazioni degli Stati membri alla Commissione europea).

 

Silvia Spattini 
Ricercatrice ADAPT
@SilviaSpattini

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