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Bollettino ADAPT 7 febbraio 2022, n. 5
Negli ultimi anni welfare aziendale e lavoro agile sono stati due dei fenomeni al centro delle trasformazioni organizzative d’impresa e del lavoro. Per quanto si tratti di due istituti diversi, il cui collegamento rimane per lo più latente se ci limitiamo ad un’analisi della rispettiva normativa di riferimento, è invece guardando alla pratica delle relazioni industriali che negli ultimi anni si possono rintracciare gli spazi di sinergia tra i due istituti (si vedano i rapporti ADAPT sulla contrattazione collettiva, in particolare in La contrattazione collettiva in Italia (2020) VII Rapporto ADAPT, ADAPT University press, 2021). Infatti, non di rado nella contrattazione collettiva questi due strumenti sono ricondotti a un quadro più ampio di pratiche organizzative volte a sostenere il benessere del lavoratore e la sua conciliazione tra vita professionale e vita privata.
Il doppio filo che lega lavoro agile e welfare aziendale è apparso ancora più nitido proprio lo scorso 7 dicembre con la firma del “Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile” tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e le principali sigle di associazioni di rappresentanza datoriale e sindacale. Obiettivo del protocollo è stato quello di fornire delle linee d’indirizzo per la corretta applicazione del lavoro agile nel settore privato per guardare oltre alla disciplina emergenziale senza disperdere l’occasione offerta dalla pandemia di un’applicazione del lavoro agile su larga scala (oggetto proprio dell’approfondimento di ADAPT-Assolombarda, Il lavoro agile oltre l’emergenza, 2021). Affrontiamo quindi le principali questioni che sono emerse nel rapporto tra questi due istituti anche alla luce dei nuovi spunti offerti al riguardo dal Protocollo.
Il lavoro agile per il welfare aziendale
La prima questione riguarda il fatto che il lavoro agile possa rappresentare uno strumento volto a favorire la conciliazione vita-lavoro, rientrando così, indirettamente, tra quelle misure organizzative di welfare aziendale (come nell’accezione utilizzata nel nostro rapporto Welfare for People sul welfare occupazionale e aziendale in Italia, nella parte I capitolo 2 “Mappatura, rappresentazione e criteri di misurazione delle esperienze di welfare aziendale e occupazionale in Italia”, pp. p 59-74). Questo non rappresenta di certo una novità specie per chi guarda a questi fenomeni nella prospettiva di relazioni industriali (per un approfondimento si veda il già citato Settimo Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia 2020 ed in particolare il capitolo sul lavoro agile a pagina 387 e quello sul welfare emergenziale a pagina 315).
Da un punto di vista normativo occorre ricordare come, sin dal principio (si veda l.n. 81/2017, art. 20), il lavoro agile è stato riconosciuto dalla legge come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro che ha tra i suoi scopi quelli di «incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro». Nelle premesse, anche il “Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile” è intervenuto sottolineando come il lavoro agile risulti uno strumento utile a favorire il «bilanciamento tra sfera personale e lavorativa, ma anche dell’autonomia e della responsabilità individuale verso il raggiungimento degli obiettivi, favorendo altresì un risparmio in termini di costi e un positivo riflesso sulla produttività».
Ma il lavoro agile in questi anni si è gradualmente affermato anche come uno strumento con cui favorire la partecipazione e l’inclusione nel mercato del lavoro per soggetti con particolari esigenze o problematiche personali o familiari. Già l’intervento della Legge di Bilancio 2019 aveva introdotto dei criteri di precedenza all’accesso al lavoro agile per alcune categorie di lavoratori, quali le lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità e i lavoratori con figli in condizioni di disabilità (sollevando, invero, anche qualche perplessità si veda M. Menegotto, in Bollettino ADAPT n. 1/2019). La logica dei “criteri di precedenza” è stata ripresa anche dalla disciplina emergenziale per cui, già dai primi interventi del governo in piena pandemia, era stato riconosciuto ai lavoratori disabili, ai lavoratori affetti da gravi patologie e a coloro che fossero impegnati nell’assistenza parenti malati la priorità di accesso allo SW rispetto agli altri colleghi.
Anche sul piano normativo, si è andata così sviluppando un’impostazione che non si limita a considerare il lavoro agile come uno strumento utile per favorire la conciliazione vita-lavoro ma anche come una modalità organizzativa della prestazione lavorativa in grado di promuovere la piena inclusione nel mercato del lavoro di persone con disabilità o affette da malattie croniche (si vedano le riflessioni già proposte in M. Tiraboschi, Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, in DRI, 2015, n. 3, pp. 681-726). Impostazione esplicitata dal Protocollo che all’art. 10, dedicato ai «Lavoratori fragili e disabili», dove si specifica che «le Parti sociali si impegnano a facilitare l’accesso al lavoro agile per i lavoratori in condizioni di fragilità e di disabilità, anche nella prospettiva di utilizzare tale modalità di lavoro come misura di accomodamento ragionevole» (per un maggior approfondimento si veda il contributo di M. De Falco, in Bollettino ADAPT n. 44/2021).
Nonostante nella prassi della contrattazione collettiva siano diversi gli accodi da cui si può evincere un collegamento diretto tra lavoro agile e welfare aziendale a livello normativo e istituzionale resta un collegamento per lo più indiretto tra i due strumenti che si fonda sulla mediazione offerta da altri ambiti quali quello della conciliazione vita-lavoro e dell’inclusione lavorativa.
Il welfare aziendale per il lavoro agile
La seconda questione, che sino ad ora è risultata più problematica, ha riguardato la possibilità dei lavoratori in smart working di usufruire o meno del welfare aziendale (in senso stretto, ovvero assumendo una definizione “fiscale” di welfare aziendale facendo riferimento principalmente ai servizi e alle prestazioni agevolate dalla normativa rivolte ai lavoratori). Già la l.n. 81/2017 aveva riconosciuto il principio di parità di trattamento dei lavoratori in smart working. Tuttavia, ciò non era bastato a far sorgere qualche dubbio circa il diritto di questi lavoratori di usufruire delle stesse prestazioni nel caso il loro lavoro si svolgesse in presenza.
Il caso più spinoso era emerso in materia di riconoscimento dei buoni pasto allo smart worker. Sul punto il Tribunale di Venezia (sent. 8 luglio 2020, n. 1069) aveva sostenuto, richiamando le disposizioni del CCNL applicato, che il buono pasto si configurasse come un beneficio collegato alle modalità concrete di organizzazione del lavoro non rappresentando un elemento normale della retribuzione ma un’agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale. Molti avevano commentato la sentenza, peraltro relativa all’ambito di pubblico impiego, arrivando alla conclusione che, in via generale, non fosse necessario il confronto sindacale qualora le aziende avessero voluto togliere il beneficio dei buoni pasto ai lavoratori passati da una modalità di lavoro in presenza alla modalità lavoro agile.
In realtà, anche nel caso del Tribunale di Venezia, è evidente l’attenzione posta dal giudice nel sottolineare la necessità di verificare come la materia del buono pasto sia stata disciplinata all’interno della contrattazione collettiva di riferimento. Appare condivisibile, al riguardo, a nostro avviso la linea che, già allora, era stata tenuta, da ANSEB sulla questione, là dove ha sottolineato come la possibilità di riconoscere i buoni pasto ai lavoratori in smart working dipendesse dalle modalità con cui la contrattazione collettiva avesse declinato questi due istituti ovvero da come fossero state definite le condizioni di accesso ai buoni pasto.
Queste riflessioni si possono in parte estendere anche, più in generale, all’ambito del welfare aziendale. In termini pratici, un accordo o un regolamento potrebbero definire come categoria omogenea di lavoratori beneficiari del welfare aziendale tutti coloro che lavorano in presenza presso una determinata sede o con un determinato orario di lavoro. Tuttavia, nel caso in cui i lavoratori in smart working non fossero chiaramente esclusi da tale previsione, risulterebbe problematico sospendere il beneficio senza passare dalla contrattazione collettiva e tanto più adesso alla luce del recente Protocollo firmato da Governo e Parti Sociali.
Infatti, l’art. 9 del Protocollo non solo ribadisce il principio di parità di trattamento ma lo rafforza ulteriormente con un richiamo esplicito agli istituti della contrattazione di secondo livello: «Ciascun lavoratore agile ha infatti diritto, rispetto ai lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dei locali aziendali, allo stesso trattamento economico e normativo complessivamente applicato, anche con riferimento ai premi di risultato riconosciuti dalla contrattazione collettiva di secondo livello, e alle stesse opportunità rispetto ai percorsi di carriera, di iniziative formative e di ogni altra opportunità di specializzazione e progressione della propria professionalità, nonché alle stesse forme di welfare aziendale e di benefit previste dalla contrattazione collettiva e dalla bilateralità».
Un passaggio per certi versi culturale che viene completato da quanto previsto all’art. 11, dove si specifica che le parti sociali si impegnano a sviluppare, in relazione agli ambiti della genitorialità, inclusione e conciliazione vita-lavoro «misure di carattere economico e/o strumenti di welfare che supportino l’attività di lavoro in modalità agile da parte del lavoratore». Dunque, non solo in linea di principio vale la parità di trattamento, che arriva a ricomprendere anche la “voce” del welfare aziendale, ma le parti sociali sono chiamate, inoltre, a pensare a degli strumenti specifici di welfare per supportare lo svolgimento del lavoro in modalità agile.
Il riferimento è probabilmente figlio delle difficoltà che molti genitori hanno affrontato nel periodo pandemico riscontrando non poche difficoltà a coniugare i compiti di cura verso i figli – resi ancor più gravosi della forzata chiusura di scuole e dalla convivenza 24/24 ore – con lo svolgimento della prestazione lavorativa (che necessariamente si svolgeva, in quel periodo, entro le mura domestiche). Se pur questa fase appare ormai oggi superata, l’esperienza è servita a mettere in luce come, nonostante il lavoro agile possa avere un importante ruolo come strumento di conciliazione vita-lavoro, non è scontato che riesca ad assolvere questo compito. Questo perchè si tratta comunque, in primis, di una modalità di organizzazione della prestazione lavorativa che deve essere oggetto di un’attenta progettazione nei contesti di impresa per riuscire a rispondere efficacemente a questa funzione. Proprio rispetto a questa esigenza progettuale le relazioni industriali possono offrire un contributo importante.
Peraltro, dal Protocollo emerge come oggi vi sia stata una presa di consapevolezza da parte del Governo e delle Parti Sociali sul fatto che l’applicazione del lavoro agile non migliori necessariamente il benessere del lavoratore, né tanto meno la produttività del lavoro o la conciliazione con la vita privata, se non è frutto di una riflessione che tiene conto tanto delle esigenze personali del lavoratore quanto di quelle organizzative dell’impresa.
Lavoro agile e welfare aziendale nel prisma delle relazioni industriali
Come per il welfare aziendale così anche sul lavoro agile, si osserva come le normative volte a regolare gli istituti, prima della disciplina emergenziale, di fatto prendano atto dell’esistenza di due fenomeni che già andavano diffondendosi nella contrattazione collettiva. Si sottolinea però ancora come dal punto di vista normativo i due istituti viaggino su due binari paralleli e siano limitate le occasioni di compenetrazione rispetto a quanto effettivamente accade della pratica delle relazioni industriali. Basti pensare sul punto, ad esempio, come dal sistema di incentivi e vantaggi fiscali riservati alle misure di welfare aziendale restino totalmente escluse e scollegate le prestazioni di flessibilità organizzativa se non nel caso di limitate finestre di opportunità (si ricorda sul punto il Decreto Interministeriale 12 settembre 2017 e il Bando Conciliamo del 2019).
Questo si deve anche al fatto che la realtà, rilevabile dalle prassi e dalle soluzioni offerte dalla contrattazione collettiva, spesso muta più rapidamente di quanto riesca a fare il diritto. Per cui è proprio osservando i due istituti nel prisma delle relazioni industriali che si riescono a cogliere importanti spunti evolutivi su queste materie.
Il Protocollo da questo punto di vista rappresenta un passaggio importante perché prova a mettere a fattor comune l’esperienza di questi anni per offrire alcune linee di indirizzo, coinvolgendo parti sociali e governo secondo una logica concertativa e rilanciando così l’attenzione sul ruolo e sugli strumenti a disposizione delle parti sociali al di là del perimetro dell’impresa e della contrattazione collettiva. Inoltre, nel Protocollo da un lato si sottolinea ulteriormente il ruolo che il lavoro agile può avere come pratica di welfare; dall’altro si esplicita l’importanza di pensare a strumenti in grado di sostenere un’organizzazione agile del lavoro.
In questo senso, grazie a una prospettiva di relazioni industriali, oggi appare chiaro come il welfare aziendale possa rappresentare un istituto funzionale a sostenere lo sviluppo di nuove modalità di organizzazione della prestazione lavorativa e dell’impresa. Mentre sul versante della sfera personale del lavoratore viene ulteriormente riconosciuta l’importanza del welfare aziendale come strumento volto ad accrescere il benessere delle famiglie e la conciliazione tra vita privata e vita professionale, anche di chi si trova a lavorare da remoto.
Maria Sole Ferrieri Caputi
ADAPT Junior Research Fellow
@mariasole_fc