Negli ultimi due anni, in particolare a partire dall’approvazione della Legge di Stabilità 2016, il welfare aziendale ha avuto una grandissima diffusione trasformandosi, in breve tempo, in uno dei temi che ha riscosso e continua a riscuotere molto interesse. La Legge di Stabilità 2016 ha dato un forte impulso alla diffusione di questo fenomeno, ponendosi come spartiacque tra il vecchio e il nuovo welfare aziendale.
Il welfare aziendale non è però un’invenzione della Legge di Stabilità del 2016, ma è una materia presente nel quadro normativo italiano da più di 30 anni. Le due riforme citate sono solamente le più recenti, ma hanno modificato un articolato normativo risalente al 1986, anno in cui fu approvato il Testo Unico delle Imposte dei Redditi.
Relativamente alle origini del welfare aziendale si conoscono molto bene i casi del welfare “olivettiano”, il caso Pirelli o di molte altre aziende principalmente di grandi dimensioni. Parlando di queste forme di welfare si è fatto sempre riferimento a un welfare “paternalistico”. Meno conosciuto è il contesto normativo all’interno del quale queste esperienze sono nate e si sono sviluppate.
Le ultime due riforme si sono concentrate principalmente sulla modifica dell’art. 51, commi 2, 3 del Tuir: sono le disposizioni che identificano fondamenta del welfare aziendale come viene inteso oggi.
Se si volesse indagare la regolazione del welfare aziendale al momento dell’approvazione del Tuir bisognerebbe, invece, fare riferimento all’art. 48, dedicato alla “Determinazione del reddito di lavoro dipendente” prima del cambiamento della numerazione apportato dal D.Lgs. 244/2003.
La struttura di questo articolo riprende quella presente oggi per l’art. 51. Al primo comma dell’ex art. 48, infatti, vengono elencati gli elementi che costituiscono il reddito di lavoro dipendente mentre, nel comma 2, vengono elencati gli elementi che non concorrono a formare il reddito e che anche per questo motivo possono essere considerati come elementi fondanti del welfare aziendale.
Il primo elemento contenuto nella lettera a) del comma 2 faceva riferimento ai “contributi versati dal datore di lavoro e dal lavoratore ad enti o casse aventi esclusivamente fine previdenziale o assistenziale in conformità a disposizioni di legge, di contratto collettivo o di accordo o regolamento aziendale”. Come si evince dal testo normativo, i contributi dovevano essere versati a enti o casse aventi esclusivamente fine previdenziale o assistenziale. Relativamente a tali enti non venivano però fornite ulteriori informazioni relativamente al loro ambito di azione come avviene nella normativa attuale. Tali contributi dovevano essere versati in conformità a contratti, accordi o regolamenti aziendali con la conseguenza che l’accordo con il singolo dipendente non rientrava nell’ipotesi prevista dal Testo Unico. Un ulteriore aspetto che merita di essere segnalato riguarda la presenza della congiunzione “e” (“[…] i contributi versati dal datore di lavoro e dal lavoratore […]”). Pur mancando precise indicazioni al riguardo, pare che il dovere di contribuzione riguardava congiuntamente sia il datore di lavoro sia il lavoratore. In mancanza di questa duplice contribuzione, non era possibile godere dell’esclusione dal reddito di lavoro dipendente.
La lettera b) faceva riferimento alle “erogazioni fatte dal datore di lavoro, anche in forma assicurativa, in conformità a contratti collettivi o ad accordi e regolamenti aziendali, a fronte di spese sanitarie previste come interamente deducibili alla lettera e) del comma 1 dell’art. 10, purché indicate nel certificato rilasciato dal datore di lavoro in qualità di sostituto di imposta”. Tale disposizione comprendeva le spese sanitarie integralmente deducibili ai sensi dell’art. 10, lettera e) del Tuir, anche se tali spese si riferivano ai familiari fiscalmente a carico del lavoratore. Le erogazioni di cui al presente comma venivano escluse dal reddito qualunque fosse stata la forma attraverso la quale le stesse venivano effettuate. Se dovessimo utilizzare il linguaggio presente oggi all’interno del Tuir parleremmo di “somme, servizi e prestazioni erogate dal datore di lavoro”. Il D. Lgs. 2 settembre 1997, n. 314, elimina la lettera b) come qui descritta inserendo, però, la nuova lettera h) nella sua formulazione in vigore ancora oggi.
La successiva lettera c), riguarda i pagamenti di premi di assicurazione sulla vita e contro gli infortuni versati dal datore di lavoro. Tali premi non erano imponibili per il lavoratore nei limiti di 2.500.000 lire e facevano riferimento solamente agli infortuni extra-professionali. Gli infortuni professionali, non costituendo per i lavoratori un fringe benefits, non concorrevano a formare il reddito di lavoro. Si evince, inoltre, che tutti i premi versati non in conformità a contratti collettivi, accordi e regolamenti aziendali concorrevano a formare, nella loro interezza, il reddito di lavoro dipendente.
Nella sua formulazione originale la lettera d) ricomprendeva “le somministrazioni in mense aziendali, o le prestazioni sostitutive, e le prestazioni di servizi di trasporto, anche se affidati a terzi”, elementi che nella disciplina vigente sono contenuti all’interno delle lettere c), d). Con riferimento alle mense aziendali o alle sue prestazioni sostitutive, il motivo che aveva spinto il legislatore ad escludere il pasto consumato dal reddito del lavoratore va ricercato nel fatto che il suo consumo non configurava un beneficio per il lavoratore stesso ma piuttosto per il datore di lavoro. Questa considerazione si legava al fatto che lo spostamento del dipendente dal luogo di lavoro per recarsi presso la propria abitazione a consumare il pasto avrebbe creato un pregiudizio economico per l’azienda rappresentato da un’eventuale prolungata assenza dal posto di lavoro, superiore rispetto al costo sostenuto per far beneficiare ai dipendenti del servizio di mensa. Anche se non espressamente scritto all’interno della norma, si riteneva che, nel caso di somministrazione in mense aziendali, le prestazioni avrebbero dovuto interessare la generalità di dipendenti o intere categorie omogenee di essi. Nella stessa disposizione veniva inoltre stabilita l’irrilevanza ai fini reddituali delle prestazioni dirette o indirette di servizi di trasposto per lo spostamento dei dipendenti dal luogo di abitazione, o da un apposito luogo di ritrovo, alla sede di lavoro e viceversa. La prestazione di trasporto non doveva comportare alcun esborso da parte dei lavoratori dipendenti. Nel caso in cui fosse avvenuto questo esborso, l’eventuale rimborso fatto al lavoratore per singoli biglietti o abbonamenti costituiva reddito di lavoro dipendente.
La disposizione forse più rilevante ai fini dell’erogazione dei servizi di welfare era la lettera e) secondo la quale erano escluse dal reddito “le opere e i servizi di cui al comma 1 dell’art. 65”. Il citato art. 65 (l’attuale art. 100) prevedeva che “le spese relative ad opere e servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o categorie di dipendenti volontariamente sostenute per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto, sono deducibili per un ammontare complessivo non superiore al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi”. In questo modo venivano escluse dal reddito le spese relative a opere o servizi effettuate volontariamente dal datore di lavoro a favore, della generalità o di categorie di dipendenti per le finalità previste dall’art. 65. La lettera e) nella sua formulazione originaria lascia però spazio a diversi dubbi interpretativi. Non è chiaro, infatti, se il rinvio all’art. 65 veniva fatto solamente alle finalità previste, alla sua volontarietà, ai destinatari o ai limiti di deducibilità per il datore di lavoro. Alla luce di quanto previsto oggi dall’art. 51, comma 2, lettera f), che specifica che il richiamo all’art 100 è riferito alle sole finalità, si può affermare che il rimando, così come previsto nel 1986, era fatto all’intero art. 65. A titolo esemplificativo, rientravano in questa categoria gli asili nido, le attività svolte presso impianti sportivi ricreativi di proprietà dell’azienda o da essa affittati, le spese in strutture ricreative come alberghi o case-vacanza, le spese per l’alloggio temporaneo dei dipendenti (foresteria), le spese per l’iscrizione a circoli privati e club, le spese per viaggi, per l’iscrizione a corsi di formazione professionale o extraprofessionale, per l’acquisto di biglietti per spettacoli teatrali o il pagamento delle tasse scolastiche ai figli dei dipendenti. Come avviene oggi con l’art. 51, comma 2, lettera f), un requisito imprescindibile per l’esclusione dal reddito di lavoro dipendente era che queste spese fossero state sostenute direttamente dal datore di lavoro e che fossero rivolte alla generalità di dipendenti o a categorie ben identificabili. Erano escluse quindi da questa disciplina tutte le forme di rimborso.
La lettera f) ricomprendeva al suo interno tre diverse fattispecie. La prima era costituita dalle “erogazioni liberali eccezionali e non ricorrenti a favore della generalità dei dipendenti o di categorie di dipendenti”; la seconda concerneva le erogazioni “di modico valore in occasione di festività”; infine, la terza comprendeva “i sussidi occasionali”. Con riferimento alla prima fattispecie, si trattava esclusivamente di erogazioni concesse in occasione di particolari avvenimenti. Tali erogazioni non costituivano reddito da lavoro, anche se di ingente valore. Erano altresì escluse dal reddito di lavoro le erogazioni di “modico” valore riconosciute in occasione di festività religiose o civili. Considerando il riferimento al “valore”, sembra opportuno pensare si trattasse di erogazioni in natura e non direttamente di erogazioni monetarie, diversamente da quanto era previsto per le erogazioni eccezionali e non ricorrenti. Infine, per “sussidi occasionali” si faceva per lo più riferimento alle erogazioni avvenute in caso di morte di familiari, di furti o di altri eventi che provocavano una spesa straordinaria per il lavoratore. Tale disposizione, dopo essere divenuta la lettera b) del medesimo articolo in seguito all’approvazione del D. Lgs. 2 settembre 1997, n. 314, è stata abrogata dall’art. 2 del D.L. 27.05.2008 n. 93, con decorrenza dal 29.05.2008.
Un’ultima disposizione che consente di definire la normativa vigente in materie di welfare nel 1986 è quella prevista dal comma 3 del medesimo art. 48 il quale affermava che “i compensi in natura, compresi i beni ceduti e i servizi prestati al coniuge del dipendente o a familiari a suo carico, o il diritto di ottenerli da terzi, concorrono a formare il reddito in misura pari al costo specifico sostenuto dal datore di lavoro”. Il riferimento era chiaramente ai fringe benefits che concorrevano a formare reddito da lavoro in misura pari al costo specifico sostenuto dal datore di lavoro e non in base al valore normale di beni o servizi ricevuti come avviene oggi alla luce della nuova formulazione del comma 3 dell’art. 51. Alla luce di quanto era previsto, nell’ipotesi in cui non esistesse un costo specifico in capo al datore di lavoro, non vi poteva essere tassazione in capo al dipendente. Discorso analogo era valido anche per i fringe benefits concessi ai familiari a carico, anche non fiscalmente, del lavoratore.
Concludendo e sintetizzando, si può affermare che la disciplina del welfare, alle sue origini, si presentava in una forma meno matura e meno strutturata rispetto ad oggi lasciando spazio a diversi dubbi interpretativi. Questa scarsa chiarezza è forse uno dei motivi che ha limitato la sua diffusione nei primi anni successivi all’approvazione del Tuir. Evidente è anche la natura strettamente volontaria e unilaterale di queste forme. Non era previsto il welfare contrattuale e al contrario, in diversi casi, la presenza di forme di welfare all’interno di contratti, accordi o regolamenti aziendali costituiva un requisito per la loro imponibilità. Inoltre, è possibile osservare anche la presenza di un paniere di servizi con finalità maggiormente a carattere sociale rispetto a quelli che si possono osservare oggi. Questa differenza è causata solo in parte dalla formulazione normativa. La componente ricreativa all’interno del quale oggi vengono fatti rientrare una larga parte dei servizi, con finalità che si allontanano da quella sociale, era presente nell’art. 65 del 1986 come nell’art. 100 in vigore. La differenza sembra quindi essere dovuta più ad una componente culturale e al ruolo che le aziende intendono dare al welfare.
È quindi indubbia la spinta data dalla Legge di Stabilità 2016 ma è altrettanto chiaro che le novità normative non possono essere la sola e vera causa della diffusione del welfare. Tali cause devono essere individuate anche in una serie di altri cambiamenti economici, culturali e sistemici che sono stati assorbiti dalla normativa e che insieme hanno determinato l’esplosione del welfare aziendale.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo