Secondo Lei, come sta cambiando il concetto di prevenzione e promozione della salute all’interno delle aziende?
La promozione della salute nei luoghi di lavoro riguarda, almeno in parte, la recessione mondiale. Le organizzazioni del settore pubblico e privato negli ultimi dieci anni hanno drasticamente ridimensionato il personale con lo scopo di ridurre il costo del lavoro e questo ha significato, per la maggior parte delle imprese e degli enti pubblici, un ridimensionamento degli organici.
Come ha affermato una volta un direttore delle risorse umane, ci stiamo ora concentrando su un fenomeno di “turnover spiacevole”. Vale a dire che non possiamo permetterci di perdere nessuna persona nei ruoli chiave. Quindi, fra gli obiettivi degli interventi relativi al well being c’è quello di mantenere la forza lavoro sana e produttiva, in altri termini “la promozione della salute” è ormai un problema basilare.
Quali sono gli effetti ed i benefici del “benessere” sul posto di lavoro?
Nel mio libro Wellbeing: Productivity and Happiness at Work (scritto insieme al Prof. Ivan Robertson e pubblicato da PalgraveMacmillan, Londra) si evidenziano i dati sugli interventi di benessere in termini di salute e di produttività dei dipendenti. Questi dati dimostrano che creare una cultura del benessere sul posto di lavoro ha come risultato meno assenze per malattia, meno presenzialismo e un aumento della produttività (anche se abbiamo bisogno di più dati per quantificare quest’ultima caratteristica).
Perché il benessere sul posto di lavoro dovrebbe essere una parte fondamentale di una strategia aziendale?
Il benessere dovrebbe essere una tematica insita nel core business, perché le aziende hanno bisogno di ridurre al minimo assenze per malattia e presenzialismo (fenomeno riguardante le persone che vanno a lavorare malate o insoddisfatte, fornendo un valore aggiunto molto ridotto), e, soprattutto, abbiamo bisogno di aumentare la produttività dei nostri dipendenti. Molti Paesi dell’UE hanno scarsa produttività pro capite, e ciò inibisce il programma di crescita dell’UE. Il benessere non è più un elemento vago e ambiguo delle discipline di gestione delle risorse umane e della salute, che si deve ottenere tanto per averlo, ma è una parte essenziale della produttività e della strategia di crescita.
Secondo Lei, dove sono le maggiori difficoltà di reinserimento/inserimento per i lavoratori malati cronici all’interno delle aziende?
Il problema principale dell’integrazione delle persone nel mondo del lavoro riguarda, in primo luogo, coloro che hanno problemi di salute mentale. Persone con disabilità fisiche o malattie sono meno problematiche da questo punto di vista rispetto a quelle con malattie mentali, perché c’è uno stigma associato ad esse, e i datori di lavoro non capiscono o non sanno come trattare i dipendenti che soffrono di depressione e ansia. Dobbiamo eliminare lo stigma della malattia mentale nella società e nei luoghi di lavoro e far ritornare le persone con questi problemi al lavoro e alle cure del caso.
Quali sono le cause del presentismo sul lavoro?
Il presentismo ha origine dall’insicurezza sul posto di lavoro.
Se, durante i periodi di recessione, si assiste alla perdita da parte di molti altri lavoratori del posto di lavoro, dal momento che ormai il posto di lavoro non è più fisso, anche quando si è malati e insoddisfatti ci si alza per andare a lavorare perché preoccupati che in futuro si possa tener conto di questa assenza per un eventuale licenziamento. Questa precarietà del lavoro è il principale motore del presenzialismo.
Cosa può fare la legge per facilitare l’adozione di strategie di prevenzione nei luoghi di lavoro?
La salute e la promozione del benessere non possono essere imposti attraverso provvedimenti legislativi. I dirigenti ai più alti livelli devono capire quale impatto ha il non impegnarsi nella creazione di un ambiente di lavoro di benessere. Inoltre nei luoghi di lavoro c’è bisogno di manager socialmente più qualificati a tutti i livelli per creare una cultura incentrata sul benessere. L’attuale generazione di manager può non capirlo, ma la prossima generazione lo farà – dato che questi concetti vengono insegnati nelle scuole di business in tutta Europa – o almeno lo spero!
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo
@FabiolaSilvaggi
*Professore di Psicologia Organizzativa e della Salute presso la Business School dell’Università di Manchester.
Traduzione a cura dell’Autore.