Si celebra tra pochi giorni il dodicesimo anniversario dell’assassinio di Marco Biagi al quale mi legava una trentennale amicizia. Ricordo ancora, come se fosse ieri, la sera in cui Marco fu ucciso. Ero nella mia casa di Roma e stavo lavorando al computer. Nel frattempo ascoltavo la radiocronaca di una partita di calcio (ricordo che giocava le Roma in una competizione europea). Nell’intervallo del primo tempo il giornale radio diede l’annuncio dell’uccisione. Telefonai subito ad Alessandra, allora mia compagna, oggi mia moglie, che si trovava a Bologna. Essa si precipitò a casa di Marina. Pochi istanti dopo mi chiamò al telefono Alberto Orioli de Il Sole 24 Ore, il quotidiano economico a cui Biagi ed io collaboravamo, e mi chiese di scrivere un pezzo in sua memoria. Raccontai come ci eravamo conosciuti nel 1974 quando, insieme sulla mia Fiat 124 bianca, ci eravamo recati, guidando a turno, dalla nostra città ad Ariccia, per partecipare ad un seminario organizzato da Gino Giugni sul tema delle 150 ore, in cui era stata coinvolta tutta la scuola di Federico Mancini. Poi, ricordo ancora, verso mezzanotte mi recai a La 7 a commentare quel tragico evento.
Come ho scritto nel mio libro Marco Biagi, il riformista tradito: “Quella notte, in via Valdonica, a due passi dalle Due Torri, sotto quei portici bui, in quell’intreccio di viuzze con l’acciottolato, tra Piazza S. Martino e l’antico Ghetto, ho certamente perduto un amico. Ma ho trovato un Maestro, una Guida. Non solo perché – da allora – ho iniziato ad occuparmi dei problemi del mercato del lavoro proprio per meglio difendere la memoria e la causa di Marco. Ma per aver riscoperto – quando ormai non lo ritenevo più possibile dopo l’eclissi di tutti i miei ideali – una missione nella vita. In quella notte ho ricevuto una consegna: non mollare mai, servire la verità, ascoltare la coscienza”.
Difendere la memoria di Marco, soprattutto, nei primi anni dopo la sua morte, non è stato facile. Occorreva sfidare una sorta di pensiero unico, infido e disonesto, amplificato e propagandato, dai media di regime, che imputava alla legge Biagi quella che allora veniva chiamata la “cattiva occupazione”. Con forze e disponibilità limitate, con Maurizio Sacconi ed altri amici, organizzammo persino un comitato per il No nel referendum abrogativo della legge promosso da settori della sinistra politica e sindacale. Aprimmo un sito online durante la campagna referendaria, sul quale io mi incaricai di curare una rubrica di controinformazione quotidiana (di cui conservo ancora i file).
Poi, col passare degli anni, il clima è cambiato sia come giudizio generale sul tema della flessibilità, sia per quanto riguarda l’opera di Marco Biagi, dal Libro Bianco sul mercato del lavoro del 2001 alla legge n. 30 che porta il suo nome del 2003. Potremmo dire che, considerati gli effetti – certificati ufficialmente nel previsto monitoraggio – della legge Fornero del 2012 sull’occupazione (ce ne siamo occupati in questa rubrica commentando il Quaderno n. 1 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali) la richiesta di ripristinare le norme della legge Biagi non appare né forzata né propagandistica, anche se il disegno di legge delega che è in corso di predisposizione da parte dell’attuale governo non si è sottratto al luogo comune di riscrivere e riordinare le diverse forme contrattuali esistenti, come se ciascuna di esse non corrispondesse all’esigenza di disciplinare in modo appropriato talune situazioni lavorative specifiche.
Va altresì riconosciuto al governo Renzi – se non interverranno cambiamenti – che le norme contenute nel decreto legge in materia di contratti a termine e di apprendistato (soprattutto dopo i chiarimenti intervenuti ad opera del governo stesso) sono sicuramente e sorprendentemente positive e, forse, costituiscono il segno di un nuovo approccio alle politiche del lavoro, molto più in linea con il pensiero di Marco Biagi. Bene. Immagino che a questo punto qualcuno si chiederà dove è finito il “politically(in)correct”. Rispondo subito. Quest’anno non prenderò parte a quelle celebrazioni del XII Anniversario in cui l’incarico di commemorarlo (come avvenuto tante volte in questo arco di tempo), sia affidato a qualcuno dei suoi avversari di allora. Altri – molto più di me – hanno il diritto di custodire come meglio ritengono la memoria di Marco. E io non sollevo alcuna obiezione. Ma non sono più disposto ad accettare che qualcuno – credendo di compiere, in buona fede, un’opera meritoria di “redenzione” del professore bolognese reinterpretandolo in maniera politicamente corretta cioè da sinistra – venga a parlarmi di un Marco diverso da quello che ho conosciuto io. Nei mesi intercorrenti tra la presentazione del disegno di legge di riforma del mercato del lavoro e la sua morte, Biagi fu sottoposto ad una serie di processi politici da parte dei suoi colleghi giuslavoristi. Si svolse una riunione al Cnel con toni e accenti tali da richiamare la “sfida all’OK Corral”. Marco si difese con grande forza. Ma chi lo criticò in quella storica giornata e oggi viene incaricato di ricordarne l’anniversario dovrebbe cominciare il suo discorso chiedendo scusa e non arrogandosi l’arbitrio di riscrivere lui la vera storia di Biagi e l’esatta formulazione del suo pensiero sui temi più scottanti di allora che, più o meno, sono ancora gli stessi di oggi. Per capire invece quale fosse il vero Marco Biagi e come ritenesse di affrontare le questioni del diritto del lavoro non importa andare a cercare i testimoni. Lo ha lasciato scritto lui, con una mole di testi, documenti, saggi e articoli peraltro ripubblicati da coloro che gli furono veramente vicini. A me è sufficiente ricordare uno degli ultimi atti di Marco Biagi. Nel venerdì della settimana precedente quella in cui venne ucciso, il 19 marzo, usci su Il Sole 24 Ore un appello di cui Renato Brunetta era il primo firmatario, io il secondo, Marco il terzo, a sostegno del tentativo in atto, da parte del governo Berlusconi, di una riforma limitata e temporanea dell’articolo 18, su cui fu combattuta in quei mesi quasi una guerra civile. Un suo collega milanese lo apostrofò dichiarandosi stupito di trovare il suo nome in mezzo ad un elenco di “berlusconiani”. Marco (si veda il carteggio) gli rispose per le rime affermando di non avere nulla da spartire con il Cavaliere ma di condividere quelle proposte. Ma vogliamo ragionare su dei testi e non solo sui ricordi? Di seguito, i lettori troveranno “l’articolino” (così lo chiamò Marco stesso) scritto per Il Sole 24 Ore ed inviato al direttore Guido Gentili, pochi giorni prima di essere ammazzato e pubblicato postumo il 21 marzo 2002. Credo che questo scritto dovrebbe essere mandato a memoria da parte degli studenti di diritto del lavoro, i quali farebbero bene a non dimenticare mai che il mio indimenticabile amico pagò con la vita il diritto di affermare le proprie idee.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Il testamento spirituale di Marco Biagi
Il dado è tratto: modernizzazione o conservazione?
Mi è venuto d’istinto di buttare giù queste righe. Vedi tu se ti possono servire.
Questo breve messaggio indirizzato al direttore del Sole-24 Ore accompagnava l’ultimo articolo di fondo di Marco Biagi. L’ennesimo lucido contributo alle idee e all’analisi della società (n.d.a.).
Il nostro diritto del lavoro è diventato una materia di forte richiamo anche per l’opinione pubblica. Solo qualche tempo fa nessuno avrebbe mai immaginato che sulle riforme del mercato del lavoro si scaricasse una fortissima attenzione dei mezzi di informazione. Ed ora che, dopo le ultime scelte del Governo sulla riforma sperimentale dell’art. 18, si è alla vigilia di uno scontro sociale con tanto di sciopero generale, anche le relazioni industriali entreranno in uno stato di sofferenza.
In realtà l’art. 18 c’entra poco o nulla. Non possiamo far finta di non vedere che il vero dissenso non è tanto (o non solo) riferito a questa norma pur così emblematica nel nostro ordinamento. Dopo tutto nel recente accordo sui Comitati aziendali europei, trasponendo una direttiva tanto attesa, le parti sociali si sono accordate nel non richiamare più l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (comportamento antisindacale). Una norma non meno caratteristica, per molti anni vera e propria bandiera della sinistra sindacale. Il vero terreno di scontro è più in generale quello riguardante un progetto di riforma dell’intera materia, da un lato, e la difesa strenua dell’impianto attuale, dall’altro.
Naturalmente è più che lecito dissentire sulle tecniche di modernizzazione o comunque nutrire riserve in relazione alle scelte del Governo, alcune sicuramente più persuasive di altre. Non si comprende invece l’opposizione radicale a ritenere pressoché immodificabile l’attuale assetto del diritto del lavoro, eccependo ad ogni piè sospinto la violazione dei diritti fondamentali o attentati alla democrazia.
É legittimo considerare ogni elemento di modernizzazione o progresso un pericolo per le classi socialmente più deboli. É sempre stato così nella storia che anche in questo caso si ripete. Tutto il disegno di legge 848 costituisce il passaggio dal vecchio al nuovo e vien da pensare che dopo l’art. 18 vi sarebbero state altre parti di quel testo a subire il veto di parte sindacale. Lo stesso “Statuto dei lavori” significa rivedere la tutele delle varie forme di lavoro e non solo estendere quelle attuali a chi ancora non ne dispone. Ogni processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, insomma pagando anche prezzi alti alla conflittualità.
Marco Biagi
21 marzo 2002